Le istruzioni dicono: viaggiare leggeri. Così nella piccola borsa trova posto la sintesi di una vita: le foto di chi si ama ma si lascia indietro, un documento d’identità nella plastica, pochi indumenti, qualche soldo – se ne sono rimasti dopo aver pagato chi ti ha “aiutato” a fuggire.
Nel cuore, il bagaglio più pesante: la paura di non arrivare, la nostalgia della famiglia, la sfida che si ha davanti, l’incognita. Le notizie che arrivano da chi ce l’ha fatta non sono confortanti: condizioni di vita estreme, poco lavoro, molto sfruttamento, maltrattamenti, apartheid. Ma finché non ci sei non lo sai sulla tua pelle e pensi sia meglio rischiare: la vita nella terra che lasci vale così poco. Ecco, si parte: c’è una certa eccitazione, si guarda avanti, verso una meta sognata seppur temuta. E qualcuno arriva: noi li guardiamo nei tuguri dove vivono – case diroccate, capannoni abbandonati, senza acqua né luce, e in fondo, diciamocelo, pensiamo che siano abituati così, che non soffrano, che comunque è molto di più di quello che avevano. Pensiamo che per loro la vita abbia meno significato della nostra, che la fatica sia molto meno spossante, che il loro destino sia scritto a caratteri evanescenti.
E per chi non arriva alla meta ci commuoviamo, molto se si tratta di numeri a due cifre, molto di più se le cifre sono tre, meno per le unità come se non fossero persone. Con una madre e un padre che li hanno salutati in lacrime e hanno pregato per loro; o una moglie che ha detto ai figli che papà è andato a lavorare in un’altra terra ma torna.
A volte sono bambini e donne che raggiungono quei papà perché stare lontani non ce la fanno più e lì potranno andare a scuola. E curarsi quando hanno la diarrea.
Piango per questi nuovi morti ma molto più per noi vivi che non sappiamo più contare.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia