Uno spazio narrativo per raccontare i punti di vista, le suggestioni, le riflessioni sul continente africano, visto da dentro, dalla voce di chi è stato in Africa, ma anche da fuori, dall’Italia e dalla tanta “africanità” che in essa vive. Un'Africa che vive a sud del Sahara, ma che incontriamo anche sulle nostre strade, nelle nostre città. Un'Africa che, consapevoli o meno, ogni giorno incrocia le nostre vite.

venerdì 29 marzo 2013

Mwanza, downtown, 29 ottobre 2012.

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Chiara Valerio
11.09 am. Anche qui ci sono neri che vendono cinture, profumi e calzini per la strada ad altri neri che hanno già cinture, profumi e calzini. Una estraniente forma di globalizzazione. In giro si vedono molte motociclette, vecchie suzuki 250 o 150 con sellini grandi come divani. Gli uomini guidano vestiti in giacca e camicia, le donne portano sulla testa ceste di banane e di mango, ritte e composte come fusi. Tutti sorridono molto e tutti sono vestiti sgargianti come per un matrimonio in una provincia del Sud. Scendo dalla macchina per fumare una sigaretta, mi si avvicinano due venditori proponendomi entrambi un profumo da uomo, ma è l'unico che hanno, non credo ci sia una intenzione di genere. Le case intorno sono intonacate con pubblicità della Coca-Cola, della Dasani - che è l'acqua liscia che Cola-Cola mbottiglia in India - della Vodacom. Le case, le chiese e le officine hanno tetti di lamiera, è quello che posso vedere da terra. Non ci sono marciapiedi e si guida all'inglese, ma è solo per il senso di marcia, per il resto sembra una strada di Napoli. Più che altro pare che i pedoni, le biciclette, le moto e macchine abbiano il medesimo diritto di occupare la carreggiata e gli stessi obblighi di precedenza. Tutto mi pare molto sbiadito, tranne il sole che tuttavia presto scompare per lasciare posto a un cielo brillante di pioggia. Le donne, sulla testa, portano anche i trolley. Le impalcature per alzare i palazzi sono di legno, somigliano a ragnatele. Nessuna delle persone che incontro per strada porta un ombrello. Non si riparano dalla pioggia, come non si riparano dal sole. Mi piace e mi sembra giusto. 

Chiara Valerio per AMREF Italia

venerdì 22 marzo 2013

BIYO in somalo significa Acqua

BIYO in somalo significa Acqua. A dire il vero anche alcune popolazioni dell'Etiopia del nord identificano con questo stesso termine l'acqua.
Mi è sempre sembrata una parola semplice, per questo amica, essenziale..una di quelle che si imparano presto da bambini. Ci sono nel nostro vocabolario dei termini che ci stanno particolarmente a cuore perché ci stanno simpatici per come li abbiamo masticati per esempio fin da piccoli: ecco, questa è una di quelle, forse perché una delle prime che infatti ho imparato in somalo insieme a hoio cioè mamma.
Ho sempre pensato che questa facilità di pronuncia si legasse alla sostanzialità dell'elemento, al fondamento primario del suo significato. Hoio? Biyo! Cioè:  Mamma? Acqua! Ecco, così, semplice, essenziale come sono le parole dei più piccoli.
Salta poi evidente all'orecchio che ci sia una forte parentela fonetica tra il somalo BIYO ed il termine "Bìos", che in greco antico significa VITA. Tutto questo mi sono detta forse non è un caso. Perché la loro consonanza conferma che al di là delle differenze culturali tra i popoli, al di là della geografia che li separa, esiste questo indissolubile binomio tra acqua e vita.
Sarà perché sono nata in una città di mare, Mogadiscio appunto, o sarà perché il mio medico fin da piccola non fa che ripetermi di berne almeno due litri al giorno, ma la vicinanza all'acqua ha sempre influito positivamente sul mio benessere fisico e spirituale. Credo sia qualcosa la cui centralità riguardi proprio tutti, biologicamente e antropologicamente. E' un elemento che offre un ventaglio ricchissimo di metafore, e allo stesso tempo si fa oggetto di scontri ideologici e politici:  perché questa parola, corta, chiara ed essenziale, BiYo, insiste quasi come elemento strutturale nell'architettura della vita: mi viene in mente la centralità della chiave di volta nella costruzione di un arco. Senza Biyo l'equilibrio di un villaggio come di un'intera società crolla, cioè l'arco della vita precipita.
Eppure da qualche tempo a questa parte, la simpatia che ho per questa parola tende a virare in sospetto quando la sento nel nostro italiano, -BIO- , o la leggo per esempio sulle insegne dei negozi,  perché ormai tutto ciò che è legato quasi come una moda alla salute e al benessere diventa oggetto di business,  gli empori salutisti sono sempre più simili a delle boutique, e i prodotti cosiddetti biologici, diventano spesso inaccessibili per le tasche della maggior parte delle persone. Da parola semplice della mia infanzia, rassicurante, che tiene insieme gli individui legandoli al comune bisogno, si sta trasformando in parola quasi oggetto di lusso, esattamente come l'acqua che da elemento di diritto universale, si trasforma in liquido prezioso, magari imbottigliata in contenitori costosissimi che sembrano addirittura bottiglie di profumo. L'acqua che unisce, l'acqua che divide. L'acqua nella sua semplicità , l'acqua nella sua sofisticazione.
La vita di miliardi di persone dipende dal destino di questa parola semplice.

Saba Anglana per AMREF Italia

 


giovedì 21 marzo 2013

Acqua

Elasti
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Ai miei figli piace parecchio il gioco delle associazioni. Funziona così: chi comincia dice una parola (nella loro personale interpretazione del gioco quella prima parola è, quasi sempre, «cacca», ma questa è un’altra storia), gli altri, a turno, proseguono trovando sostantivi legati alla parola precedente, in una catena virtuosa o viziosa di cui si conosce il principio e si ignora la fine.
L’altro giorno ho iniziato io: «acqua!». La sequenza ci ha portati dall’acqua alla vasca da bagno, passando per lo shampoo, le bolle di sapone, le nuvole, la pioggia, le pozzanghere per poi tornare all’acqua, transitando per il signore che ogni due settimane ci porta le casse di minerale che, per qualche insondabile motivo, è ai loro occhi un supereroe, per finire dietro la maschera di Batman e tra pipistrelli.
Quando arrivai nel Nord dell’Uganda, dopo una notte in aereo e una mattina in jeep, per prima cosa, mi portarono a visitare un pozzo. «Sono matti. Perché siamo tutti qui a guardare un buco con dell’acqua dentro?», pensai senza capire. Poi, piano piano, fu tutto chiaro. Quell’acqua era potabile, serviva centinaia di persone, risparmiava alle donne dei villaggi vicini di camminare per chilometri con una tanica da 20 litri sulla testa, perdendo tempo in marcia, tempo da destinare invece alla cura della famiglia, all’istruzione e ad attività che generano reddito.
Un pozzo di acqua pulita, in Uganda, come in tutta l’Africa Sub-Sahariana, è la prima via d’accesso alla prevenzione e alla salute, la prima barriera contro povertà, fame, malattie, disparità di genere.
L’acqua, per un sesto della popolazione mondiale, non è  vasca da bagno, shampoo, bolle di sapone, nuvole e un signore supereroico che porta da solo 48 bottiglie. L’acqua, per quel sesto, è la sostanza stessa della vita.
Il 22 marzo è la Giornata Internazionale dell’Acqua. È venerdì, un buon giorno per pensarci e per fare il gioco delle associazioni, partendo magari proprio dall’acqua, con cognizione di causa.

Elasti per AMREF Italia

venerdì 15 marzo 2013

Mamma Africa

Avrei giurato che nessuna delle mie canzoni avrebbe mai ospitato le due parole in abbinamento "Mamma Africa".
Con sospetto continuavo a sentirle come inflazionate intorno a me, nei titoli, nei testi, nei lavori
e nelle invocazioni di tutti coloro che cantano la terra che li ha generati, o la terra che attraversano,
che scoprono, che cominciano ad amare. "Mama Africa?" Troppo facile.
Naturalmente, invece, l'ho fatto poi anche io.
Ed è stata una liberazione catartica, due parole pronunciate come a spalancare la braccia e ad abbandonare la testa all'indietro.
Perché se il Creatore avesse un sesso sarebbe femmina.
E perché se dovessi ritrarre con i colori quel Dio generoso e gravido di vita qui, in mezzo alla savana,
negli slum di Nairobi, nei villaggi sperduti del ventre del Kenya, probabilmente traccerei il volto di una donna africana.
S'impara in quei volti la componente materna e incondizionata dell'amore di ogni donna del pianeta.
L'accoglienza, il desiderio di tenere in grembo in un abbraccio antico anche i loro uomini e di proteggere i propri figli. 
Il nucleo della vita che generano e che difendono istintivamente dalla morte, dalla guerra, dalla distruzione e dalle sfiancanti difficoltà quotidiane di un'esistenza messa continuamente alla prova.
Seme prezioso, questo amore. Prezioso per la pace, e prezioso per la sopravvivenza.
Donna è questa terra che soffre e ancora spera, che ancora ama e vuole essere amata, aiutata.

Saba Anglana per AMREF Italia


L’album LIFE changanyisha, "La vita ci mescola", è un progetto speciale di Saba Anglana per AMREF, un racconto in musica del viaggio che l'artista italo-etiope ha condotto in Kenya seguendo la rotta dei villaggi e dei luoghi remoti in cui opera la maggiore organizzazione sanitaria africana.

mercoledì 13 marzo 2013

In viaggio. Insieme

Quanta polvere abbiamo mangiato per arrivare qua oggi: la polvere rossa delle piste d’Africa, quelle sulle quali abbiamo viaggiato insieme alle donne e agli uomini che, curiosi, hanno accettato di compiere con AMREF questo viaggio.

Risparmiandovi la polvere … vi invitiamo a seguire queste tappe con noi, anzi con loro … Chiara, Clara, Concita, Elasti, Paola e poi anche Fiorella Mannoia, Saba Anglana, Giobbe, PIF… settimana dopo settimana svuoteranno il taccuino degli appunti e riempiranno queste pagine.

Li ringraziamo tutti, per essersi messi in gioco. E per la voglia di continuare a farlo.
Qui potete ascoltarne alcune voci

Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia


giovedì 7 marzo 2013

Partiamo


Elasti
Quasi sei mesi fa partivo per l’Uganda con AMREF
Mi avevano telefonato un giorno d’estate. «Vieni?», avevano chiesto.
Avevo un’idea approssimativa dell’Uganda e quel poco che sapevo - ebola, malaria, guerra civile ventennale, bambini soldato, un film bellissimo e violento su un dittatore sanguinario – mi faceva una gran paura. Nei confronti di AMREF, di cui pure conoscevo poco, avevo un pregiudizio positivo che al momento mi bastò. Ci sono sì inevitabili, grati, incoscienti, precipitosi, ineluttabili. Il mio fu uno di quelli. «Certo che vengo», risposi.
 Il medico del centro vaccinale alzò gli occhi al cielo, chiese perché io, madre di famiglia, avessi deciso di correre tutti quei rischi e mi prescrisse otto vaccinazioni che non feci. La mia amica Giovanna, che condivide il destino di tre figli maschi e piccoli, mi spiegò che, per una fuga, c’erano mete ben più amene e mi salutò inghiottendomi in un abbraccio lacrimoso e definitivo. Mio figlio infilò nella mia valigia Darth Vader perché, quando il gioco si fa duro, non resta che appellarsi al lato oscuro della Forza. La vicina di casa mi definì irresponsabile, un collega, pensando di fare cosa gradita, mi inviò una mail con l’elenco dei sintomi della febbre emorragica, mio padre non fece in tempo a vedermi partire ma – lo so- avrebbe scosso la testa e avrebbe detto: «Tu sei completamente pazza» e poi avrebbe sorriso.
Così partii, per un posto che sapevo a malapena collocare sulla carta dell’Africa, un po’ turbata dall’inquietudine mia e soprattutto altrui.
Nei sei giorni in Uganda ho visto bambini soldato diventati uomini e donne, bambine divenute madri, alunni seduti ai banchi di scuola, con i monelli in punizione in prima fila, ragazze ambiziose, donne a cui vorrei somigliare e donne insopportabili, uomini respingenti e uomini per bene, nonne quarantenni che dicono «Sono vecchia e stanca», quindicenni spavalde alla conquista del futuro e quindicenni spezzate prima ancora di affacciarsi sul serio alla vita. Ho fotografato un treenne, grande quanto mio figlio piccolo, che lanciava sassi contro la nostra jeep, perché la trasgressione è un impulso irresistibile a qualsiasi latitudine, un’ostetrica che visitava, dentro una capanna, una madre alla sesta gravidanza, la pesata di un neonato, su una bilancia agganciata al ramo di un albero.
Ho parlato, ascoltato, interrogato, riso, scherzato, confidato, condiviso. Ho scambiato numeri di telefono, indirizzi mail, promesse di amicizia.
Non ho mai avuto nostalgia di casa e non ho mai avuto paura.
A volte mi sono sentita inutile, inopportuna, impreparata. Spesso non capivo. Perché era tutto troppo nuovo, troppo diverso, troppo lontano. E per questo, per capire, avrei voluto e dovuto fermarmi di più.
«Ma cosa si può fare per l’Uganda, per l’Africa? Che cosa posso fare io? E cosa possono fare il medico del centro vaccinale, Giovanna, la vicina di casa, il collega?», ho chiesto l’ultimo giorno, di pessimo umore, come succede sempre alla fine di una cosa bella.
«Il modo migliore per cominciare ad aiutare l’Africa è partire e venire a conoscerla», mi hanno risposto.
E io credo sia vero. Perché spesso per avvicinarci, con empatia, apertura, curiosità e disponibilità alle cose, abbiamo bisogno di toccarle, annusarle, assaggiarle. Solo così, allontaniamo la diffidenza e la paura. Solo così, dopo, viene voglia di tendere una mano. 

Elasti 

Nairobi, aeroporto, 29 ottobre 1012

Chiara Valerio
4.10 am. Al gate 6 - transiti - persone che russano, altre che parlano sommessamente, il flusso continuo delle breaking news di Al Jazeera e il suono di un carillon che, tre file più in là, viene acceso e spento per far addormentare un bambino attaccato con un panno alla schiena della madre. Quando piange, la donna si piega per farlo stare in orizzontale, come su un lettino. Dalla finestra si vedono le piste di atterraggio, quiete e quasi deserte, vista l'ora. Da un buco in una finestra, che subito mi aveva rallegrato, adesso entra l'aria satura di fumi di gomma e di benzina che si respiava all'aeroporto del Cairo.

6.09 am. è giorno pieno. Ed è piena anche la sala d'aspetto del gate 6. Molti asiatici, molti bianchi con passaporto sudafricano. Fuori è tutto piatto, terra e cielo sono privi di variazione, sembrano perenni, durevoli, risalenti nel tempo e nello spazio. L'orizzonte non è un filo, ma un nastro, spesso. 

Chiara Valerio

Da Addis Abeba c’è una strada...


Paola Soriga
Da Addis Abeba c’è una strada che va verso est, una striscia di asfalto che corre per 800 chilometri, fino al Gibuti e al Somaliland, fino al mare. La percorrono camion carichi e lenti, uomini, donne e bambini a piedi, con mucche, capre e dromedari, asini e carretti con i cavalli. La percorre la mia amica Martha, che vive a Roma, quando riesce a risparmiare e tornare dalla sua famiglia, a Jijiga, una città dell’est del Paese, verso il confine con la Somalia. Me la immagino come quelle che vedo, la sua città, quella in cui è cresciuta, immagino la casa dove è stata bambina e poi ragazza, negli anni del comunismo e in quelli della sua caduta, le lotte interne e i conflitti con la Somalia e l’Eritrea. Mi dice, al mio rientro, che a lei piaceva, il comunismo, quando non c’era questa differenza tra i poveri e i ricchi, che fa un po’ vergognare. Quando ho detto a Martha che sarei andata nella regione dell’Afar mi ha detto che sono fortunata, che sarebbe certo stato un viaggio prezioso e non turistico. È la prima volta che vado in Africa, e non so cosa aspettarmi, provo a non aspettarmi niente. Ho, con me, le parole di Martha e l’emozione di entrambe. Mi preparo a guardare ascoltare sentire, non dimenticare. 

Paola Soriga