Uno spazio narrativo per raccontare i punti di vista, le suggestioni, le riflessioni sul continente africano, visto da dentro, dalla voce di chi è stato in Africa, ma anche da fuori, dall’Italia e dalla tanta “africanità” che in essa vive. Un'Africa che vive a sud del Sahara, ma che incontriamo anche sulle nostre strade, nelle nostre città. Un'Africa che, consapevoli o meno, ogni giorno incrocia le nostre vite.

venerdì 28 giugno 2013

Un pomeriggio al dispensario di Ilatu, dove nasce il futuro dell'Africa

Arriviamo al dispensario di Ilatu nel distretto di Makindu, Kenya, intorno alle 11, dopo circa 2 ore di macchina su strada sterrata, circondati da arbusti, baobab e tanta polvere di terra rossa. Siamo a 40 chilometri dalla città di Makindu, dove si trova l’unico ospedale della zona.
In quest’area la siccità e il caldo si fanno particolarmente sentire, la popolazione sta attendendo le piogge previste per fine mese e ha iniziato a preparare il terreno per le piccole coltivazioni. Chissà come andrà quest'anno... Negli ultimi cinque anni la pioggia è stata poca, comunque inferiore alla media stagionale...

Certo, viaggiando per queste strade ci si rende conto di quanto l’acqua sia fondamentale per tutto, di quanto senza acqua non si possa andare lontano, tanto meno camminare sotto il sole cocente con un figlio in grembo. Ricordo la mia di gravidanza a giugno, al 9° mese, con il fiatone e il caldo; mi ci voleva sempre un gelato nel breve tragitto di 20 minuti a piedi da casa all’ospedale per il monitoraggio.

Le donne che attendono pazientemente il loro turno di visita all’ombra di una acacia davanti al dispensario sono in silenzio, sanno della nostra visita e ci scrutano. Sono una quarantina, fiere, composte, con i bimbi in braccio o legati sulla schiena.
Il dispensario di Ilatu è una semplice costruzione di mattoni con due stanze per le visite e null’altro, ed è il punto di riferimento per circa 9.000 persone. Non c’è acqua potabile, non ci sono servizi igienici. Ci si rende conto subito che di tratta di una struttura povera, un avamposto; di proprietà del Ministero della Salute e gestito da Mwangia, un'infermiera professionale. E’ utilizzato da AMREF come punto di appoggio due volte al mese, per visitare donne e bambini, vaccinare, istruire le mamme durante la gravidanza e convincerle a partorire in una struttura sanitaria in modo più sicuro.

Mwangia è aiutata da quattro operatori sanitari comunitari (Community Health Workers) aderenti al progetto di AMREF ed incaricati di istruire le mamme nelle varie fasi della visita a loro e ai loro bambini. Durante la prima visita di monitoraggio della crescita del bambino viene loro consegnato un libretto per raccogliere e aggiornare le informazioni relative alla salute del bambino, che viene aggiornato di volta in volta dall’operatore sanitario. I bambini sono pesati uno ad uno con una bilancia appesa ad un albero. Due operatori tentano di distrarre i bimbi per evitare – con poca fortuna – i pianti sfrenati dei piccoli che si trovano, loro malgrado, sospesi nel vuoto, infilati in una sorta di salopette per essere appesi e pesati. O forse piangono ancora di più per la presenza di adulti stranamente bianchi, che non sono ancora abituati a vedere in queste zone così difficili e remote.


Dopo la pesa, i bimbi vengono misurati nella parte alta del braccio con il braccialetto usato per valutare la malnutrizione. Questo strumento è particolarmente utile in situazioni in cui altre apparecchiature non sono disponibili, o se non sono note con precisione le date di nascita dei bambini. Il libretto per monitorare la crescita dei bambini, che è distribuito dai CHWs alle neo mamme, viene aggiornato con il peso odierno. Una degli operatori sanitari spiega alle mamme in attesa l’importanza di conservare e portare sempre con sé il libretto sanitario per loro e i loro bambini. Il semplice uso di questo mezzo rappresenta una innovazione in questo distretto, che mira a colmare un po’ quella carenza di informazioni demografiche e sanitarie dei membri di questa comunità.


Mwangia intanto è impegnata in une delle due stanze con le vaccinazioni dei bambini. È il turno di Mwongeca Mulandi, un bel maschietto di circa 1 anno e quasi 12 chili di peso. La mamma ha seguito i consigli ricevuti dagli operatori sanitari e lo ha allattato esclusivamente al seno fino a 7 mesi, portandolo a visitare e vaccinare. I bambini sono segnati nel registro delle vaccinazioni del distretto insieme ai loro dati e quelli dei genitori, e Mwongeca è il 25° di questa mattina.

Lentamente mi avvicino ad alla seconda stanza, è in corso una visita ad una donna in gravidanza avanzata, se ne occupa Mauva, un’ostetrica professionale che aiuta Mwangia al dispensario. Chiedo gentilmente il permesso di entrare, che mi viene concesso con un sorriso e mi trovo faccia a faccia con un enorme pancione e una mamma di 25 anni che lo accarezza orgogliosa sdraiata sul lettino. Il suo nome è Ngina, e alla sua giovane età è già mamma di 4 bambini. Questa è però la prima gravidanza assistita, con visite di controllo, il test per l’HIV ogni 6 mesi e lo screening per il cancro alla cervice che sarà eseguito 2 mesi dopo il parto. Ngina mi racconta del cambiamento avvenuto nella sua vita: grazie alle visite a casa dei CHWs e delle levatrici tradizionali, si è convinta che era importante per la sua salute e quella del suo bambino essere assistita durante questa gravidanza. Insieme al marito, ha partecipato agli incontri sul family planning organizzati dai CHWs, Insieme hanno deciso che dopo il parto useranno un metodo anticoncezionale, suggeritogli da Mauva con impianto sottocutaneo per il rilascio di ormoni con una durata di 3 anni. Ngina sa anche che questo non può proteggerla da malattie trasmesse sessualmente come l’AIDS, vorrebbe chiedere al marito di utilizzare il preservativo. 

Sono stupita dalla forza e dalla convinzione di questa giovane donna, e tutto questo mi convince ancora di più dell’importanza di raggiungere ogni angolo remoto di questo magnifico ma tanto difficile paese, con servizi clinici adeguati e la formazione dei CHWs.
Sono 8 anni che lavoro con AMREF in Italia e mi occupo del monitoraggio dei progetti di sviluppo come questo. Molti risultati acquisiti nel corso degli anni dimostrato che coinvolgere la comunità in qualità di partner consente di accelerare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi del millennio per la salute. Le persone delle comunità formate come operatori sanitari hanno una grande importanza nel fornire quell’assistenza che è spesso vitale per le persone che vivono in realtà con risorse insufficienti. Sono il mezzo per colmare il divario tra i sistemi sanitari e le comunità rurali svantaggiate; per migliorare l'accesso alla sanità di buona qualità, soprattutto in ambito materno-infantile, nelle vaccinazioni, nell'alimentazione, nei servizi di pronto soccorso.
Forse è proprio questa la strada affinché la desiderata "Salute per tutti" qui diventi una realtà.

Roberta Bernocco, Project Manager – Programme Unit, AMREF Italia


mercoledì 26 giugno 2013

L’infamia. Nel tempo

Se non sapevano quello che facevano fu per non volerlo sapere... che non è una scusa ma bensì una colpa. 

Così scriveva nella prima metà dell’800 Alessandro Manzoni (in Storia della colonna infame) per ambientare i delitti che furono compiuti contro innocenti durante la peste del 1630 da una giustizia che cercava dei colpevoli in luogo della verità. 
Questa brutta vicenda umana è stata ricordata da una compagnia di rifugiati/attori, ragazzi e ragazze arrivati in Italia da diversi paesi del continente africano – Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Congo, Guinea – e che hanno provato attraverso il teatro a far capire la loro storia, raccontare i loro sogni, le loro attese. E, seguendo uno schema binario, hanno ripercorso il saggio del Manzoni accompagnando in parallelo lo spettatore nella loro vicenda.
Forti emozioni sono state evocate dalla leggerezza di corpi nati per ballare, cantare, giocare e che invece hanno conosciuto la tortura, la segregazione, l’esilio, la prigionia.
Un’ora e mezzo di lingue africane intrise di musicalità, di scenari mai mostrati sebbene protagonisti, hanno condotto chi guardava nell’immaginazione di una vita che solo in parte crediamo di conoscere. Quella di chi viene incolpato di viaggio – come dice Erri De Luca – e per questo subisce tortura, un metodo per annientare l’identità umana e far soccombere una persona. Senza sentirsi assassino.
Teneri, belli, appassionati: questi attori improvvisati – bravissimi perché recitavano se stessi e generazioni di altri sé – hanno ricordato a chi era presente che tanto c’è ancora da fare per liberare questo mondo dall’ingiustizia e dall’arroganza che nascono dall’ignoranza creando le condizioni per un dolore infinito.

25 giugno: Giornata Internazionale a sostegno delle vittime di tortura. Il CIR, Antigone e la campagna LasciateCIEntrare l’hanno celebrata così.

Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia

lunedì 24 giugno 2013

Mary non scappa

Mary non ha più di 13 anni, vive nella baracche dei soldati alle porte di Maridi, in Sud Sudan.
Mary è dinka, meno di due anni fa si è trasferita con tutta la famiglia a Maridi seguendo il lavoro di papà.
Mary non si ricorda bene di Papà, soldato del Sud Sudan, che poco dopo il trasferimento a Maridi fu mandato nella divisione di Jongley State, lasciandola sola con Mamma e gli altri.
Mary non mi parla, ma si capisce al volo che vorrebbe provare la penna che sto usando per scrivere sul quaderno.
Mary è un poco timida. Non mi guarda sempre negli occhi, ma l’infantile curiosità vince su ogni incertezza e s’avvicina. Ma poi scappa via in fretta.
Mary è tornata a sedersi accanto a Mamma sulla panca, sbirciandomi e girando poi il capo per nascondere sorrisi divertiti.
Mary non scappa quando m’avvicino e mi siedo accanto a loro porgendole la penna.
Mary non scappa, no. Mary sapeva che l’avrei seguita, per conoscere la Mamma.
Mary non ringrazia prendendo la penna, ma la guarda e la mette in tasca. Poi la riprende, la guarda di nuovo e prova a scrivere col tappo ancora sulla punta della biro.
Mary non mi guarda intimidita quando tolgo il cappuccio dalla punta e le mostro come scrivere. Mary impugna la penna nuovamente e traccia linee blu sul foglio del quaderno poggiato sulle ginocchia.
Mary ora guarda la mamma, tiene la penna stretta in pugno. La mamma guarda me e mi confida qualcosa in un arabo mischiato, un idioma che forse si trascina i resti dei molteplici trasferimenti.
Mary ci guarda, tutti e tre. Guarda la Mamma, guarda me e guarda Charles, l’operatore AMREF che si è avvicinato per tradurre all’una e alle altre. Le confidenze sulla vita di Mary, sul suo presente e il prossimo futuro.
Mary mi guarda mentre ascolto le parole in Inglese di Charles, Mary che non frequenta la scuola, Mary che deve aiutare la Mamma a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più giovani.
Mary ora si alza dalla panca dell’ingresso del Dipartimento di Maternità pronta a seguire la Mamma, che ci saluta dopo aver ricevuto i risultati degli esami.
Mary mi saluta da lontano con la il braccio alzato e la penna in pugno mentre s’allontana con la Mamma che ha accompagnato all’Ospedale di Maridi.
Mary presto avrà un altro fratellino o forse una nuova sorellina di cui prendersi cura.

Dedicato a tutte le Mary del Sud Sudan.



Cristina Raho, Project Manager – Programme Unit, AMREF Italia

venerdì 21 giugno 2013

Valigie

Ieri ho ascoltato la ministra Kyenge parlare di una valigia. Quella che si porta dietro da anni, riempiendola di emozioni, di sfide, di libertà, di progetti. Mai nella sua valigia trovano posto gli insulti e le violenze - e sappiamo quanti ne ha ricevuti nelle ultime settimane da nostri connazionali che vedono nel colore della sua pelle una minaccia. Semplicemente, lei dice, non trovano posto nella mia valigia.
Ieri si celebrava la Giornata Mondiale del Rifugiato e la ministra parlava delle fughe, delle speranze di quelli che scappano. Cécile Kyenge rappresenta per tutti loro la possibilità di cavarsela. 
Sembra difficile colmare la distanza tra un bel discorso - che fatto da una congolese che sa di cosa parla è già molto più di un bel discorso - e la vita reale di milioni di persone che fuggono da violenze, da povertà, da malattie  non curabili a casa propria. 
Eppure ci sono molti modi. 
Per esempio. Tutti noi abbiamo una valigia nella quale trovano posto ricordi, sentimenti, esperienze, relazioni che fanno di noi persone con un passato, un presente e un futuro. Il futuro negato a troppe persone in giro per il mondo. Per salvare molte di loro, basterebbe che nelle nostre valigie entrassero anche la solidarietà, la curiosità e l'amore per l'altro, la benevolenza, la giustizia. Non è un carico pesante anzi. E' probabile che renda le nostre esistenze più leggere, gioiose e vissute in un'armonia che rende liberi.

Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia

martedì 18 giugno 2013

Ossiuri

«Buongiorno. Nella classe blu si è verificato un caso di ossiuri. Controllate i vostri bambini». Il messaggio arrivava dalla rappresentante di classe di mio figlio piccolo che ha tre anni e che, negli ultimi mesi di scuola materna, è scampato miracolosamente all’assalto dei pidocchi, a un’epidemia di varicella e a quella di un’altra malattia esantematica che si chiama mani-piedi-bocca.
Non avevo la più pallida idea di cosa fossero gli ossiuri.  E, felicemente ignara, non sentivo il peso della lacuna. Ho scoperto che sono dei parassiti che somigliano a vermi, bianchi e filamentosi. Si annidano nell’intestino e provocano un’infezione piuttosto fastidiosa. La prospettiva di un’invasione di queste infide e disgustose creature all’interno del mio bambino mi ha gettato per un attimo nel più cupo sconforto. Poi ho letto che basta una pastiglia per debellarli, così come basta uno shampoo per cacciare i pidocchi e molta pazienza per far passare varicella e mani-piedi-bocca. E ho pensato che ci sono motivi migliori per farsi prendere da panico e sconforto.

Durante il mio viaggio in Uganda con AMREF, una mattina ci siamo fermati a visitare un presidio ospedaliero. Abbiamo parcheggiato la macchina e siamo scesi. Un bambino - avrà avuto l’età di mio figlio piccolo, quello che rischia gli ossiuri - si è avvicinato alla jeep, quatto quatto. Ha raccolto un sasso da terra e lo ha lanciato contro il cofano. Occhi grandi, sguardo di sfida, una maglietta bianca con una scritta che parlava del suo papà, il piglio del bandito professionista. Compiuta la sua eroica e trasgressiva prodezza, colto da panico o senso di colpa improvviso, è corso fulmineo a nascondersi tra le gambe della sua mamma, deponendo i panni del malvivente e riprendendo quelli del bimbetto che era. L’ho fotografato, nel suo rifugio fatto di gambe e di gonna.


L’immagine di quel bambino che guarda spavaldo l’orizzonte mi è tornata alla mente quando, pensando agli ossiuri, spiegavo a mio figlio che doveva lavarsi le mani benissimo e cercare di non mettersele in bocca.
Quel bambino può considerarsi molto fortunato. E non perché non rischia di prendersi gli ossiuri che proliferano nei climi temperati e non in Africa. Ma perché è sopravvissuto alla nascita ed è sopravvissuta al parto anche la sua mamma. Quel bambino aveva una probabilità di morire venendo al mondo 17 volte maggiore rispetto a mio figlio.
Tuttavia, per lui, la strada è ancora in salita, in una zona del mondo in cui un bambino su otto muore prima dei cinque anni.
Potrebbe essere punto da una zanzara e ammalarsi di malaria, potrebbe prendere la polmonite che è la prima causa di mortalità infantile in quei luoghi, o una semplice diarrea che lì può rivelarsi fatale, o il morbillo di cui da noi, grazie al vaccino, non si parla più. Quel bambino poi potrebbe essere sotto nutrito, malnutrito oppure potrebbe essere morsicato da uno scorpione, da un serpente. O avere una febbre che non passa, per colpa di una zecca.

L’infanzia di quel bambino è un percorso a ostacoli e in salita.
L’infanzia dei nostri figli è uno scivolo.
I bambini hanno gli stessi diritti, dovunque essi siano nati. Lo dice anche la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo. Hanno diritto a una speciale protezione e «devono poter crescere e svilupparsi in modo sano». Peccato che non succeda.
Forse dovremmo ricordarcene quando abbiamo paura degli ossiuri.

 Elasti per AMREF Italia