Un sesto della popolazione della Terra non ha ancora accesso ad acqua pulita e 2,6 miliardi di persone, circa due quinti degli abitanti del Mondo, non hanno accesso ad adeguati servizi igienici. In Africa subsahariana più del 40% della popolazione vede quotidianamente violato il suo diritto all'accesso a fonti idriche sicure.
Tante volte ho ricercato, elaborato e divulgato questi dati, ma non c'è niente da fare: mi è impossibile trattarli come semplice materia di studio e di lavoro.
Ogni volta che vedo i miei figli sotto la doccia, penso ai milioni di bambini che muoiono a causa di tifo, colera, dissenteria, e gastroenterite. Oggi, anno 2013.
Ogni volta che apro il rubinetto per lavare l'insalata, mi si parano davanti le tante donne che ho visto in Uganda, scalze o poco più, in strada per chilometri per raggiungere una fonte d'acqua pulita, con taniche da 20 litri sulla testa e bambini infagottati sulle spalle.
Ma penso anche al lavoro di AMREF, a ciò che ho visto con i miei occhi: alla costruzione di pozzi, cisterne e acquedotti, alle sorgenti protette, alla formazione di tecnici e di comitati di gestione. Ricordo i sorrisi larghi e la dignità ora festosa, ora composta di tutti gli africani che ho incontrato, quelli impegnati nei centri di salute, quelli che ogni giorno fanno il giro, villaggio per villaggio, per portare prevenzione e cure di base. Per le comunità ma CON le comunità.
Penso, in quest'estate afosa e senza vento in cui ora mi trovo, che davanti alla povertà e alle ineguaglianze il rimedio più efficace sia la partecipazione. Penso che la soluzione nasca sempre da dentro, e alla lezione che AMREF mi ha insegnato.
Valeria Sabato, Ufficio stampa, AMREF Italia
Uno spazio narrativo per raccontare i punti di vista, le suggestioni, le riflessioni sul continente africano, visto da dentro, dalla voce di chi è stato in Africa, ma anche da fuori, dall’Italia e dalla tanta “africanità” che in essa vive. Un'Africa che vive a sud del Sahara, ma che incontriamo anche sulle nostre strade, nelle nostre città. Un'Africa che, consapevoli o meno, ogni giorno incrocia le nostre vite.
martedì 30 luglio 2013
venerdì 26 luglio 2013
Un lavoro e una rete per non cedere all'HIV
AMREF lavora in Etiopia sin dagli anni
’60. Oggi sono attivi 23 progetti in 4 regioni del paese: Addis Abeba, Afar,
SNNPR e Oromiya. Insieme a Lisan, una giovane collega, mi inoltro nello slum di Kechene, ad Addis Abeba, per visitare un progetto di assistenza a
malati di HIV, in particolare donne.
Anche Kechene, come tutti gli slum che ho visitato, si sviluppa in un dedalo di vicoli su cui si affacciano case e botteghe di ogni tipo, la maggior parte delle quali costruite con fango e lamiera. C’è un fermento continuo, la vita non si ferma mai e nemmeno gli "affari", che portano tantissime persone a percorrere queste piccole e contorte strade sia di giorno che di notte.
Abbandoniamo l’auto che a un certo punto non può più proseguire e ci avviamo a piedi ad incontrare un gruppo di donne sieropositive che, formate da AMREF, si occupa di produzione di artigianato.
Di fronte all’ingresso di un capannone sono raccolte tante tazze, teiere, coppe e ad aspettarci c’è Tigest Wendon, leader del gruppo: “Noi ci occupiamo di produrre i contenitori utilizzati per preparare il caffè nel modo tradizionale etiope, che prevede l’uso di carboni ardenti” dice Tigest, una donna energica e con uno sguardo cristallino, che ci tiene a farmi vedere anche le materie prime necessarie alla produzione dei manufatti. Oltre ai tre componenti necessari a realizzare la pasta da modellare e all’acqua, fondamentale è il combustibile per il forno “realizzato grazie ad AMREF” - come tiene a precisare Tigest - costituito da foglie e piccoli rami, “che raccogliamo da sole nei boschi per risparmiare”. Legna e letame “ottimo, ma costoso!” mi dice Tigest ridendo insieme a Lisan.
“Siamo un gruppo che si è formato da circa tre anni, e da un anno siamo qui.” mi racconta Tigest. “Siamo tutte donne ed abbiamo un’età media di 29 anni”, donne affette da HIV. Tigest non parla volentieri della sua condizione perché in Etiopia l’HIV è ancora uno stigma molto discriminante, che può anche impedire di trovare una casa in affitto perché i proprietari non vogliono avere malati di HIV nelle proprie abitazioni. “Il nostro è un gruppo strutturato, con una leader, una segretaria ed una tesoriera. Abbiamo l’impegno a versare alla cassa comune 10 birr al mese (circa 50 cents, ndr) con cui paghiamo l’affitto e compriamo le materie prime per la produzione. Ognuna di noi poi produce e vende per se ai mercati della città ed altre occasioni particolari, come le fiere. AMREF ci ha permesso di diventare un gruppo riconosciuto, per questo abbiamo ottenuto l’affitto di questa struttura da parte del governo, ci ha fornito la formazione tecnica sulla gestione del gruppo e sulle modalità di vendita dei nostri prodotti, in questo modo ad esempio abbiamo abbassato molto le spese di produzione, e ci ha sostenuto nella realizzazione del forno che ci ha permesso di raddoppiare la produzione. Insomma la nostra vita è cambiata completamente e siamo molto orgogliose.”
Azzardo un’osservazione: “Immagino che anche i vostri mariti e le vostre famiglie siano felici di questa situazione”. Tigest mi guarda con un sorriso un po’ sarcastico e risponde: “Tutte noi abbiamo figli, poche anche un marito. Siamo noi la nostra famiglia, noi e i nostri figli. E ho un sogno: avere qualcuno che disegni per noi dei prodotti nuovi, per permetterci si espandere la produzione”.
Anche Kechene, come tutti gli slum che ho visitato, si sviluppa in un dedalo di vicoli su cui si affacciano case e botteghe di ogni tipo, la maggior parte delle quali costruite con fango e lamiera. C’è un fermento continuo, la vita non si ferma mai e nemmeno gli "affari", che portano tantissime persone a percorrere queste piccole e contorte strade sia di giorno che di notte.
Abbandoniamo l’auto che a un certo punto non può più proseguire e ci avviamo a piedi ad incontrare un gruppo di donne sieropositive che, formate da AMREF, si occupa di produzione di artigianato.
Di fronte all’ingresso di un capannone sono raccolte tante tazze, teiere, coppe e ad aspettarci c’è Tigest Wendon, leader del gruppo: “Noi ci occupiamo di produrre i contenitori utilizzati per preparare il caffè nel modo tradizionale etiope, che prevede l’uso di carboni ardenti” dice Tigest, una donna energica e con uno sguardo cristallino, che ci tiene a farmi vedere anche le materie prime necessarie alla produzione dei manufatti. Oltre ai tre componenti necessari a realizzare la pasta da modellare e all’acqua, fondamentale è il combustibile per il forno “realizzato grazie ad AMREF” - come tiene a precisare Tigest - costituito da foglie e piccoli rami, “che raccogliamo da sole nei boschi per risparmiare”. Legna e letame “ottimo, ma costoso!” mi dice Tigest ridendo insieme a Lisan.
“Siamo un gruppo che si è formato da circa tre anni, e da un anno siamo qui.” mi racconta Tigest. “Siamo tutte donne ed abbiamo un’età media di 29 anni”, donne affette da HIV. Tigest non parla volentieri della sua condizione perché in Etiopia l’HIV è ancora uno stigma molto discriminante, che può anche impedire di trovare una casa in affitto perché i proprietari non vogliono avere malati di HIV nelle proprie abitazioni. “Il nostro è un gruppo strutturato, con una leader, una segretaria ed una tesoriera. Abbiamo l’impegno a versare alla cassa comune 10 birr al mese (circa 50 cents, ndr) con cui paghiamo l’affitto e compriamo le materie prime per la produzione. Ognuna di noi poi produce e vende per se ai mercati della città ed altre occasioni particolari, come le fiere. AMREF ci ha permesso di diventare un gruppo riconosciuto, per questo abbiamo ottenuto l’affitto di questa struttura da parte del governo, ci ha fornito la formazione tecnica sulla gestione del gruppo e sulle modalità di vendita dei nostri prodotti, in questo modo ad esempio abbiamo abbassato molto le spese di produzione, e ci ha sostenuto nella realizzazione del forno che ci ha permesso di raddoppiare la produzione. Insomma la nostra vita è cambiata completamente e siamo molto orgogliose.”
Azzardo un’osservazione: “Immagino che anche i vostri mariti e le vostre famiglie siano felici di questa situazione”. Tigest mi guarda con un sorriso un po’ sarcastico e risponde: “Tutte noi abbiamo figli, poche anche un marito. Siamo noi la nostra famiglia, noi e i nostri figli. E ho un sogno: avere qualcuno che disegni per noi dei prodotti nuovi, per permetterci si espandere la produzione”.
Gian Paolo Vassallo, operatore AMREF Italia
martedì 16 luglio 2013
Di Lampedusa e degli Indifferenti
Ho seguito la visita di Papa Francesco a Lampedusa, lo scorso lunedì 1 luglio. E ho guardato le immagini, quelle forti viste nei TG dei tanti sbarchi e non solo, quelle viste dal vivo, quelle viste nei viaggi fatti in Africa con AMREF. L’insieme di queste immagini crea un’emozione, un sentimento, una riflessione che va “mantenuta”, approfondita, sulla quale vale la pena interrogarsi e creare magari anche una discussione.
Penso ai tanti uomini e donne e bambini incontrati qui in Italia, e giù in Africa. E alle loro tante, diverse storie. Ai loro percorsi, quelli fatti, quelli da fare.
La visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola le cui coste sono quelle degli sbarchi, quelle delle tratte dei migranti, dei contrabbandieri di disperazione, di corpi di uomini, donne, bambini nati e da venire, in fuga. In cerca di riparo.
Penso alle immagini di incontri, di viaggi e di esperienze di lavoro con colleghi africani, ad una forma di una cooperazione e collaborazione che supera e va oltre i confini e genera progetti, sviluppo, miglioramento nelle condizioni di vita di una famiglia, di un villaggio, di una comunità. Di un mondo intero…
Questo è quello che dovremmo continuare a fare, a pensare, a volere. Migliorare le condizioni di vita, partendo dal basso, dalle reali esigenze e necessità di una cultura locale, di tradizioni, e condizioni climatiche ed ambientali, socio economiche e sociali.
Cambiare e progettare e costruire insieme.
Perché è difficile scegliere di recidere i tanti legami, le proprie radici con il paese nel quale sei nato, e spesso cresciuto. Allontanarsi dalla lingua che ti ha insegnato tua madre, quella lingua condivisa con la tua comunità, con un popolo che ti riconosceva uno dei suoi membri.
Ma al tempo stesso è necessario accogliere chi non può rimanere nel proprio paese, in attesa magari di un governo eletto democraticamente, o di interventi che possano generare lavoro, o di sistemi sanitari adeguati, di poter nascere e crescere “con una prospettiva di vita”. Dobbiamo poter offrire un’istruzione per tutti indistintamente, quelle condizioni di vita minime, che sono o perlomeno dovrebbero essere garantite ad ogni uomo, ad ogni donna, ad ogni figlio che viene al mondo.
E troppo spesso non è così.
Invece viene negato anche il diritto di migrare, il diritto di scegliere un paese diverso, il diritto di cercare condizioni di vita migliori.
Quelle barche che partono dall’Africa e arrivano nella nostra Europa, nella nostra bella Italia, anzichè vie di speranza diventano, troppo spesso, vie di morte, come ha detto a Lampedusa Papa Francesco.
Che punta il dito contro quella che da oggi in poi tutti chiameremo “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Beh, io odio gli indifferenti…
Gabriella Guido, Ufficio Comunicazione, AMREF Italia
Penso ai tanti uomini e donne e bambini incontrati qui in Italia, e giù in Africa. E alle loro tante, diverse storie. Ai loro percorsi, quelli fatti, quelli da fare.
La visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola le cui coste sono quelle degli sbarchi, quelle delle tratte dei migranti, dei contrabbandieri di disperazione, di corpi di uomini, donne, bambini nati e da venire, in fuga. In cerca di riparo.
Penso alle immagini di incontri, di viaggi e di esperienze di lavoro con colleghi africani, ad una forma di una cooperazione e collaborazione che supera e va oltre i confini e genera progetti, sviluppo, miglioramento nelle condizioni di vita di una famiglia, di un villaggio, di una comunità. Di un mondo intero…
Questo è quello che dovremmo continuare a fare, a pensare, a volere. Migliorare le condizioni di vita, partendo dal basso, dalle reali esigenze e necessità di una cultura locale, di tradizioni, e condizioni climatiche ed ambientali, socio economiche e sociali.
Cambiare e progettare e costruire insieme.
Perché è difficile scegliere di recidere i tanti legami, le proprie radici con il paese nel quale sei nato, e spesso cresciuto. Allontanarsi dalla lingua che ti ha insegnato tua madre, quella lingua condivisa con la tua comunità, con un popolo che ti riconosceva uno dei suoi membri.
Ma al tempo stesso è necessario accogliere chi non può rimanere nel proprio paese, in attesa magari di un governo eletto democraticamente, o di interventi che possano generare lavoro, o di sistemi sanitari adeguati, di poter nascere e crescere “con una prospettiva di vita”. Dobbiamo poter offrire un’istruzione per tutti indistintamente, quelle condizioni di vita minime, che sono o perlomeno dovrebbero essere garantite ad ogni uomo, ad ogni donna, ad ogni figlio che viene al mondo.
E troppo spesso non è così.
Invece viene negato anche il diritto di migrare, il diritto di scegliere un paese diverso, il diritto di cercare condizioni di vita migliori.
Quelle barche che partono dall’Africa e arrivano nella nostra Europa, nella nostra bella Italia, anzichè vie di speranza diventano, troppo spesso, vie di morte, come ha detto a Lampedusa Papa Francesco.
Che punta il dito contro quella che da oggi in poi tutti chiameremo “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Beh, io odio gli indifferenti…
Gabriella Guido, Ufficio Comunicazione, AMREF Italia
martedì 9 luglio 2013
Waithaka, dove batte il cuore di Dagoretti
Dagoretti è tante cose.
Dagoretti è una delle nove
Divisioni della città di Nairobi, in Kenya. Un’area di circa 40 chilometri,
all’interno della quale la popolazione è cresciuta da 40.000 a 240.000 abitanti
nell’arco di 40 anni. 240.000 persone che vivono su un
territorio di proprietà governativa, alle quali il governo concede l’utilizzo
della terra, ma non la proprietà. È categoricamente vietato costruire case in
muratura o infrastrutture e le persone vivono in baracche di legno e fango,
stipate le une sulle altre senza alcuna soluzione di continuità, in un ambiente
insalubre che odora di discarica.
Gli slum sono la manifestazione spaziale e materiale
della povertà urbana e delle disuguaglianze all’interno della città. Le
condizioni di vita negli slum sono terribili, mancano tutti i servizi di base, elettricità, fognature, acqua potabile, ospedali. Nello slum di Dagoretti vivono più di
100.000 ragazzi e il 34% di questi sono stati identificati come ragazzi con
bisogno di protezione sociale: ragazzi di strada, minori lavoratori, ragazzi
trascurati che hanno subito violenze fisiche o psicologiche, orfani, ragazzi
che hanno lasciato la scuola. Sono vittime quotidianamente della fame, delle
malattie, della droga, dell’abbandono, della discriminazione e del crimine.
Del resto, anche il Centro di Waithaka, come Dagoretti, è tante cose.
Dal
2011, per questi ragazzi, ai margini di Dagoretti è sorta un’isola felice.
Una struttura ampia
e nuova, di proprietà di AMREF, dove possono recarsi ogni giorno e all’interno
della quale non solo trovano risposta ai loro bisogni di base, come
la salute, l’igiene e la nutrizione, ma diventano sempre più consapevoli anche dei loro
diritti di esseri umani.
Il Children Village, così viene chiamato il
Centro di Dagoretti per il recupero dei ragazzi di strada, è l’ultimo grande
risultato di un percorso iniziato dieci anni prima nel cuore stesso dello slum,
a Waithaka.
Rispetto alla vera e propria oasi del Children village, il
centro di Waithaka non è altro che un agglomerato di orticelli e monolocali.
Eppure nel percorrerne il vialetto interno, complice la silenziosa quiete che
non ti aspetteresti di trovare in uno slum, si ha l’impressione di essere nel
giardino dell’Eden, un luogo dove i diritti primari di ogni essere umano
vengono messi nella coscienza della gente comune, vengono nutriti e accuditi.
Primo
tra tutti, il diritto di esistere.
Se
doveste pensare al momento della vostra vita in cui avete iniziato ad esistere
agli occhi della società, forse come me pensereste al momento in cui siete stati
partoriti.
E
invece no. L’istante preciso in cui abbiamo iniziato
ad esistere in questa società, è stato quando nostra madre ha firmato per noi
il certificato di nascita!
In
Africa la condizione è la stessa. Con la non trascurabile differenza che soltanto
il 24% dei bambini del Kenya ne possiede uno. *
Non
tutte le madri infatti, appena partoriscono, registrano all’anagrafe il
proprio piccolo. Non certo per cattiveria, ma per una questione di cultura e di
necessità, perchè gli uffici presso i quali è possibile richiedere il
certificato sono troppo lontani da casa; perché non partoriscono in ospedale,
dove il certificato viene rilasciato automaticamente; perché esistono ancora
residui di una vecchia tradizione, per la quale nessuna donna poteva richiedere
un certificato o un documento personale senza il permesso di un padre o di un
marito.
In uno
slum, dove si vive costretti in un recinto di povertà, talmente alto da non poter
scorgere nessun orizzonte, e senza servizi di base come l’assistenza sanitaria
e la scuola, le madri semplicemente non posso immaginare l’importanza a lungo
termine di un certificato di nascita.
Una
scartoffia che, tra le tante cose, ti apre la porta del NCIF, il sistema
sanitario keniota (cosicchè se hai bisogno di cure mediche presso un ospedale
pubblico, le spese vengono coperte in parte dall’ ospedale stesso), ma anche
dell’istruzione (senza certifcato di nascita non puoi sostenere esami, non puoi
diplomarti e quindi non puoi fare affidamento nemmeno sulla tua educazione per
uscire dalla situazione di degrado nella quale sei nato).
Per
questo, in uno dei monolocali di Waithaka, ogni giorno un collega africano di
AMREF incontra le donne della comunità che hanno bisogno di un aiuto con la
burocrazia kenyota. Quando gli ho chiesto qual era il suo lavoro nello
specifico, mi aspettavo un dettagliato resoconto della sua giornata tipo tra un
ufficio e l’altro. Ma lui ha
risposto solamente: “empowering comunities”, dare potere alle comunità
africane.
È un
piccolo vivaio, dove frutta e ortaggi vengono coltivati all’interno di pile di
pneumatici ricolmi di terra. Perché nello slum non ci sono grandi appezzamenti da coltivare, per questo si cerca di insegnare alla comunità modi nuovi e
funzionali per provvedere alla propria sussistenza alimentare.
Waithaka è una
scuola. C’è una sola aula, le cui pareti sono decorate da giganti
lettere dell’alfabeto, ma le lezioni non vengono tenute per i bambini, bensì
per tutte le donne della comunità che anche in età avanzata hanno capito che
non è mai troppo tardi per migliorare la propria condizione.
Waithaka
è anche una biblioteca. Un locale pulito e tranquillo per incontrarsi, dove
fare i compiti, comporre un puzzle, leggere un libro che arriva da lontano oppure
un quotidiano.
Un luogo dove la
miseria non può entrare e dove pagina dopo pagina, parola dopo parola, il
recinto della povertà cede sotto i colpi di una coscienza umana nutrita e su di
esso si aprono lunghe crepe, finestre su un domani ancora da conquistare.
Giulia Calanca, Operatrice AMREF Italia
* Kenya Demographic Health Survey
2008-2009.
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