|
Elasti |
Quasi sei mesi fa partivo per l’Uganda con AMREF
Mi avevano telefonato un giorno d’estate. «Vieni?», avevano chiesto.
Avevo un’idea approssimativa dell’Uganda e quel poco che
sapevo - ebola, malaria, guerra civile ventennale, bambini soldato, un film
bellissimo e violento su un dittatore sanguinario – mi faceva una gran paura.
Nei confronti di AMREF, di cui pure conoscevo poco, avevo un pregiudizio
positivo che al momento mi bastò. Ci sono sì inevitabili, grati, incoscienti,
precipitosi, ineluttabili. Il mio fu uno di quelli. «Certo che vengo»,
risposi.
Il medico del centro vaccinale alzò gli occhi al cielo,
chiese perché io, madre di famiglia, avessi deciso di correre tutti quei rischi
e mi prescrisse otto vaccinazioni che non feci. La mia amica Giovanna, che
condivide il destino di tre figli maschi e piccoli, mi spiegò che, per una
fuga, c’erano mete ben più amene e mi salutò inghiottendomi in un abbraccio
lacrimoso e definitivo. Mio figlio infilò nella mia valigia Darth Vader perché,
quando il gioco si fa duro, non resta che appellarsi al lato oscuro della
Forza. La vicina di casa mi definì irresponsabile, un collega, pensando di fare
cosa gradita, mi inviò una mail con l’elenco dei sintomi della febbre
emorragica, mio padre non fece in tempo a vedermi partire ma – lo so- avrebbe
scosso la testa e avrebbe detto: «Tu
sei completamente pazza» e
poi avrebbe sorriso.
Così partii, per un posto che sapevo a malapena collocare
sulla carta dell’Africa, un po’ turbata dall’inquietudine mia e soprattutto
altrui.
Nei sei giorni in Uganda ho visto bambini soldato diventati
uomini e donne, bambine divenute madri, alunni seduti ai banchi di scuola, con
i monelli in punizione in prima fila, ragazze ambiziose, donne a cui vorrei
somigliare e donne insopportabili, uomini respingenti e uomini per bene, nonne
quarantenni che dicono «Sono
vecchia e stanca»,
quindicenni spavalde alla conquista del futuro e quindicenni spezzate prima
ancora di affacciarsi sul serio alla vita. Ho fotografato un treenne, grande
quanto mio figlio piccolo, che lanciava sassi contro la nostra jeep, perché la
trasgressione è un impulso irresistibile a qualsiasi latitudine, un’ostetrica
che visitava, dentro una capanna, una madre alla sesta gravidanza, la pesata di
un neonato, su una bilancia agganciata al ramo di un albero.
Ho parlato, ascoltato, interrogato, riso, scherzato,
confidato, condiviso. Ho scambiato numeri di telefono, indirizzi mail, promesse
di amicizia.
Non ho mai avuto nostalgia di casa e non ho mai avuto paura.
A volte mi sono sentita inutile, inopportuna, impreparata.
Spesso non capivo. Perché era tutto troppo nuovo, troppo diverso, troppo
lontano. E per questo, per capire, avrei voluto e dovuto fermarmi di più.
«Ma cosa
si può fare per l’Uganda, per l’Africa? Che cosa posso fare io? E cosa possono
fare il medico del centro vaccinale, Giovanna, la vicina di casa, il collega?», ho chiesto l’ultimo giorno, di
pessimo umore, come succede sempre alla fine di una cosa bella.
«Il modo
migliore per cominciare ad aiutare l’Africa è partire e venire a conoscerla», mi hanno risposto.
E io credo sia vero. Perché spesso per avvicinarci, con empatia, apertura,
curiosità e disponibilità alle cose, abbiamo bisogno di toccarle, annusarle,
assaggiarle. Solo così, allontaniamo la diffidenza e la paura. Solo così, dopo,
viene voglia di tendere una mano.
Elasti