Le istruzioni dicono: viaggiare leggeri. Così nella piccola borsa trova posto la sintesi di una vita: le foto di chi si ama ma si lascia indietro, un documento d’identità nella plastica, pochi indumenti, qualche soldo – se ne sono rimasti dopo aver pagato chi ti ha “aiutato” a fuggire.
Nel cuore, il bagaglio più pesante: la paura di non arrivare, la nostalgia della famiglia, la sfida che si ha davanti, l’incognita. Le notizie che arrivano da chi ce l’ha fatta non sono confortanti: condizioni di vita estreme, poco lavoro, molto sfruttamento, maltrattamenti, apartheid. Ma finché non ci sei non lo sai sulla tua pelle e pensi sia meglio rischiare: la vita nella terra che lasci vale così poco. Ecco, si parte: c’è una certa eccitazione, si guarda avanti, verso una meta sognata seppur temuta. E qualcuno arriva: noi li guardiamo nei tuguri dove vivono – case diroccate, capannoni abbandonati, senza acqua né luce, e in fondo, diciamocelo, pensiamo che siano abituati così, che non soffrano, che comunque è molto di più di quello che avevano. Pensiamo che per loro la vita abbia meno significato della nostra, che la fatica sia molto meno spossante, che il loro destino sia scritto a caratteri evanescenti.
E per chi non arriva alla meta ci commuoviamo, molto se si tratta di numeri a due cifre, molto di più se le cifre sono tre, meno per le unità come se non fossero persone. Con una madre e un padre che li hanno salutati in lacrime e hanno pregato per loro; o una moglie che ha detto ai figli che papà è andato a lavorare in un’altra terra ma torna.
A volte sono bambini e donne che raggiungono quei papà perché stare lontani non ce la fanno più e lì potranno andare a scuola. E curarsi quando hanno la diarrea.
Piango per questi nuovi morti ma molto più per noi vivi che non sappiamo più contare.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
Uno spazio narrativo per raccontare i punti di vista, le suggestioni, le riflessioni sul continente africano, visto da dentro, dalla voce di chi è stato in Africa, ma anche da fuori, dall’Italia e dalla tanta “africanità” che in essa vive. Un'Africa che vive a sud del Sahara, ma che incontriamo anche sulle nostre strade, nelle nostre città. Un'Africa che, consapevoli o meno, ogni giorno incrocia le nostre vite.
lunedì 7 ottobre 2013
lunedì 16 settembre 2013
Teranga e gratitudine
Il diario di viaggio di Paola Ferrara, con lo scrittore Paolo Nori in Senegal, fa tappa a Ounaré, un piccolo villaggio dove vivono donne come Aminata e sua figlia Aissata...
(Le "puntate" precedenti nei post del 4 e del 10 settembre).
Alle 10 siamo a Ounaré, piccolo villaggio della regione di Matam dove vivono Aminata Sy e Guisé che ci aprono la casa e le braccia. Lei, Aminata, è felice di riceverci, lo dice più volte e scaccia i bambini che numerosi si sono accalcati alla porta, inseguendoci lungo la strada. Lasciamo le scarpe sulla soglia, ci sediamo sui tappeti che coprono terra, che è il pavimento della casa, nella stanza c’è un vecchio apparecchio televisivo spento e dei materassi impilati su un lato. Deve essere la camera dove dormono. Siamo dai genitori di Aissata, una ragazza di 19 anni che a febbraio scorso è stata operata di fistola vaginale. Paolo mi chiede cosa sia. Glielo dico, e gli dico anche che qui in Africa le donne con fistola sono soggette a stigma e vengono isolate, oppure cacciate di casa. Essere incontinenti e non più fertili a 20 anni non è compreso, pensano siano infette, malate, maledette.
Aissata aveva partorito una bimba a 16 anni, travaglio lungo, difficile. Aveva poi nascosto ai genitori la sua sofferenza, il marito l’aveva abbandonata e lei viveva in silenzio con la sua bambina. Da 3 anni.
Facciamo delle domande – come hanno vissuto loro la malattia della figlia, cosa pensavano di fare, se la loro esperienza servirà ad altre donne. Risponde soprattutto lui. Non si erano accorti di nulla, Aissata non parlava quasi più, vedevano solo la sua infelicità. Poi, un giorno, Aminata riceve una telefonata dall’ospedale di Ourossogui, prende un autobus e va in città. In ospedale c’è la figlia con un’amica e sta per subire un intervento chirurgico. Torna a casa, ad accudire la famiglia. Dopo tre giorni rientra pure la ragazza.
E’ che un giorno Aissata aveva partecipato ad un incontro, parlava uno di AMREF, un’organizzazione che si occupa della salute delle persone, le avevano detto. Bachir era molto giovane, spiegava bene come prendersi cura della propria igiene, come usare l’acqua e anche cose più intime. Aveva parlato delle gravidanze, spiegando come fosse importante rivolgersi ai centri di salute e alle ostetriche o altri operatori formati, per avere assistenza durante il parto e anche prima.
Parlare con Bachir dopo l’incontro era stato difficile, per l’imbarazzo ma Aissata era riuscita a capire e aveva chiesto aiuto. Fatti alcuni esami, arriva il giorno dell’intervento. E Aissata recupera la sua vita, ricomincia a fare piani per il futuro. Oggi Bachir è per lei una persona cara e l’incontro con AMREF per questa famiglia è stata una palingenesi.
Aminata ci guarda e si vede che è felice. Le chiediamo se, avendo capito cosa è la fistola, e come è possibile curarla, ma soprattutto prevenirla, se insomma ne parla, se ha raccontato tutto alle altre donne, se la sua esperienza aiuterà altre ragazze, mamme a non soffrire più per questo. Dice che naturalmente si, che ora nel villaggio sono tutti informati e che quando ci sono dei casi simili chiamano Bachir di AMREF.
Esce dalla stanza e ritorna con un piatto di latta, l’odore di cipolle e uova invade subito l’ambiente. Sono solo le 11 ma come dire di no? E dice che se avesse saputo prima del nostro arrivo avrebbe preparato una capra….
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
(Le "puntate" precedenti nei post del 4 e del 10 settembre).
Alle 10 siamo a Ounaré, piccolo villaggio della regione di Matam dove vivono Aminata Sy e Guisé che ci aprono la casa e le braccia. Lei, Aminata, è felice di riceverci, lo dice più volte e scaccia i bambini che numerosi si sono accalcati alla porta, inseguendoci lungo la strada. Lasciamo le scarpe sulla soglia, ci sediamo sui tappeti che coprono terra, che è il pavimento della casa, nella stanza c’è un vecchio apparecchio televisivo spento e dei materassi impilati su un lato. Deve essere la camera dove dormono. Siamo dai genitori di Aissata, una ragazza di 19 anni che a febbraio scorso è stata operata di fistola vaginale. Paolo mi chiede cosa sia. Glielo dico, e gli dico anche che qui in Africa le donne con fistola sono soggette a stigma e vengono isolate, oppure cacciate di casa. Essere incontinenti e non più fertili a 20 anni non è compreso, pensano siano infette, malate, maledette.
Aissata aveva partorito una bimba a 16 anni, travaglio lungo, difficile. Aveva poi nascosto ai genitori la sua sofferenza, il marito l’aveva abbandonata e lei viveva in silenzio con la sua bambina. Da 3 anni.
Facciamo delle domande – come hanno vissuto loro la malattia della figlia, cosa pensavano di fare, se la loro esperienza servirà ad altre donne. Risponde soprattutto lui. Non si erano accorti di nulla, Aissata non parlava quasi più, vedevano solo la sua infelicità. Poi, un giorno, Aminata riceve una telefonata dall’ospedale di Ourossogui, prende un autobus e va in città. In ospedale c’è la figlia con un’amica e sta per subire un intervento chirurgico. Torna a casa, ad accudire la famiglia. Dopo tre giorni rientra pure la ragazza.
Aissata |
Parlare con Bachir dopo l’incontro era stato difficile, per l’imbarazzo ma Aissata era riuscita a capire e aveva chiesto aiuto. Fatti alcuni esami, arriva il giorno dell’intervento. E Aissata recupera la sua vita, ricomincia a fare piani per il futuro. Oggi Bachir è per lei una persona cara e l’incontro con AMREF per questa famiglia è stata una palingenesi.
Aminata ci guarda e si vede che è felice. Le chiediamo se, avendo capito cosa è la fistola, e come è possibile curarla, ma soprattutto prevenirla, se insomma ne parla, se ha raccontato tutto alle altre donne, se la sua esperienza aiuterà altre ragazze, mamme a non soffrire più per questo. Dice che naturalmente si, che ora nel villaggio sono tutti informati e che quando ci sono dei casi simili chiamano Bachir di AMREF.
Aminata con una figlia e la nipote |
Esce dalla stanza e ritorna con un piatto di latta, l’odore di cipolle e uova invade subito l’ambiente. Sono solo le 11 ma come dire di no? E dice che se avesse saputo prima del nostro arrivo avrebbe preparato una capra….
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
martedì 10 settembre 2013
Arrivo
Seconda puntata del diario di viaggio di Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione di AMREF Italia, con Paolo Nori in Senegal, per raccontare l'Africa delle donne da un punto di vista maschile (la prima parte nel post del 4 settembre).
Ero più curiosa di osservare i primi passi di Paolo in Africa che di trovarmi io per la prima volta in questo paese. L’aeroporto alle 3 del mattino è già (o ancora?) vivace, gente che cammina, ti chiede se hai un hotel e un mezzo di trasporto, macchine in sosta e in movimento dovunque, carrelli con enormi valigie ferme sui marciapiedi. Su un cartello il mio nome mi fa riconoscere Mamadou, nostro nuovo compagno di viaggio. Senegalese, da un anno alle dipendenze di AMREF, Mamadou è premuroso e attento. Data l’ora, pochi convenevoli e subito in albergo per qualche ora di riposo prima del lungo viaggio verso nord. E Paolo? Troppa stanchezza per esprimere prime reazioni, se ne parla domani.
Col sole
Eccola Dakar in pieno giorno: affollata, caotica, calda. Usciamo subito dalla città: Mamadou ci parla delle nuove infrastrutture in costruzione – piccoli tratti di autostrada, davvero pochi chilometri – e delle arachidi, principale coltura nazionale. Si corre verso Kanel, a più di 500 chilometri, quasi tutti su strade sconnesse. Alle 2 del pomeriggio arriviamo a Mbacke, nei pressi di Touba, la città santa del mouridismo; lì ci aspetta Bara, un medico di AMREF, altro compagno di viaggio. Il team è al completo ma prima di riprendere la strada, Bara ci ospita in casa per un pranzo con la famiglia. Prime avvisaglie della “teranga” senegalese e quando esprimo la mia sorpresa e l’emozione per una simile accoglienza ridendo dicono: “Non conoscevi l’ospitalità di questo paese? E’ nota in Africa”. Penso a quando si diceva la stessa cosa dell’Italia, e in particolare del sud, da dove vengo. Il viaggio riprende, per concludersi a fine giornata a Ourossogui, nella regione di Matam. Buona prima notte quaggiù.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
Ero più curiosa di osservare i primi passi di Paolo in Africa che di trovarmi io per la prima volta in questo paese. L’aeroporto alle 3 del mattino è già (o ancora?) vivace, gente che cammina, ti chiede se hai un hotel e un mezzo di trasporto, macchine in sosta e in movimento dovunque, carrelli con enormi valigie ferme sui marciapiedi. Su un cartello il mio nome mi fa riconoscere Mamadou, nostro nuovo compagno di viaggio. Senegalese, da un anno alle dipendenze di AMREF, Mamadou è premuroso e attento. Data l’ora, pochi convenevoli e subito in albergo per qualche ora di riposo prima del lungo viaggio verso nord. E Paolo? Troppa stanchezza per esprimere prime reazioni, se ne parla domani.
Col sole
Eccola Dakar in pieno giorno: affollata, caotica, calda. Usciamo subito dalla città: Mamadou ci parla delle nuove infrastrutture in costruzione – piccoli tratti di autostrada, davvero pochi chilometri – e delle arachidi, principale coltura nazionale. Si corre verso Kanel, a più di 500 chilometri, quasi tutti su strade sconnesse. Alle 2 del pomeriggio arriviamo a Mbacke, nei pressi di Touba, la città santa del mouridismo; lì ci aspetta Bara, un medico di AMREF, altro compagno di viaggio. Il team è al completo ma prima di riprendere la strada, Bara ci ospita in casa per un pranzo con la famiglia. Prime avvisaglie della “teranga” senegalese e quando esprimo la mia sorpresa e l’emozione per una simile accoglienza ridendo dicono: “Non conoscevi l’ospitalità di questo paese? E’ nota in Africa”. Penso a quando si diceva la stessa cosa dell’Italia, e in particolare del sud, da dove vengo. Il viaggio riprende, per concludersi a fine giornata a Ourossogui, nella regione di Matam. Buona prima notte quaggiù.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
mercoledì 4 settembre 2013
Voci per l’Africa. Il sequel, al maschile
L’incontro sul treno con Paolo è l’inizio del nostro viaggio. Siamo diretti in Senegal dove AMREF ci aspetta con le sue storie, i suoi progetti, la sua gente. Il trenino per l’aeroporto è pieno, vanno quasi tutti in vacanza, è il 10 agosto, normale. Noi invece arriveremo a Dakar nella notte (le tre ore di ritardo faranno mattina) per ripartire dopo poche ore per il nord del paese, verso Kanel, al confine con la Mauritania. Paolo Nori ha accettato di venire in Africa per vedere, sentire, vivere qualche giorno con AMREF e riportare al suo e nostro pubblico dei pensieri. Scriverà un racconto che sarà letto a Radio Tre a dicembre prossimo (data e orario più avanti) a sostegno della campagna Stand Up for African Mothers.
Seguite il nostro viaggio.
P. S. Anche Claudio Rossi Marcelli è partito per il Kenya con AMREF. È lì in questi giorni. E anche lui a dicembre ci racconterà su Radio3 questo viaggio, il suo primo in Africa.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
Seguite il nostro viaggio.
P. S. Anche Claudio Rossi Marcelli è partito per il Kenya con AMREF. È lì in questi giorni. E anche lui a dicembre ci racconterà su Radio3 questo viaggio, il suo primo in Africa.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
lunedì 2 settembre 2013
Il Senegal di Paolo Nori
Dopo il punto di vista delle donne, quello degli uomini: è iniziata con lo scrittore Paolo Nori la seconda fase del progetto "Voci per l'Africa", un viaggio con AMREF tra i villaggi e le comunità a sud del Sahara, per incontrare uomini e donne che in quelle terre vivono e lavorano, per conoscere la loro quotidianità, le paure e le speranze, le tradizioni e i cambiamenti.
Con AMREF, Nori è stato in Senegal e presto ne scriverà un racconto breve, che sarà letto su Radio3 in inverno. Ma intanto ci ha regalato una suggestione della "sua Africa" attraverso un lungo post suo blog www.paolonori.it
La mia Africa
A metà agosto son stato in Senegal per una Organizzazione Non
Governativa che si chiama Amref e che mi ha chiesto di far questo
viaggio per scrivere poi un testo di una ventina di minuti da dire poi
per radio in novembre; prima di partire, la prima cosa che mi hanno
chiesto, mi hanno chiesto a favore di chi doveva essere versato il
premio dell’assicurazione nel caso che io non fossi tornato,
dall’Africa, e io ho detto a favore di mia figlia solo che poi sono
tornato non c’è stato nessun premio dell’assicurazione, per il momento,
almeno, che la malaria ha un’incubazione di qualche settimana potrei
ancora esserci dentro, a pensarci. Se l’avessi scampata, dovrò poi
scrivere quel testo di una ventina di minuti e quel che scriverò, non lo
so, però penso che parlerò di quello che ha detto l’autista di Amref
Senegal, che si chiama Mamadou, a Paola, di Amref Italia, che gli aveva
chiesto se in Senegal c’era il petrolio e lui aveva risposto «No, il
petrolio non c’è però ci sono le arachidi». E poi, una cosa che credo
che dirò è che la cosa che mi ha colpito di più, del Senegal, è stato il
fatto che molti ragazzi senegalesi, e anche molti senegalesi grandi,
portavano delle magliette delle squadre di calcio europee. E mi ha
talmente colpito, questa cosa, che il primo giorno, dopo un po’, mi ero
messo a segnarmi che magliette erano e mi ero segnato: Barcellona,
Chelsea, Real Madrid, Chelsea, Milan, Real Madrid, Juventus, Barcellona,
Real Madrid, Milan, Napoli, Barcellona, Barcellona, Arsenal, Chelsea,
Barcellona, Milan, Senegal, Milan, Juventus, Milan, Barcellona,
Barcellona, Milan, Barcellona, Barcellona.
Il secondo giorno, invece, le
magliette che mi ero segnato erano: Barcellona, Milan, Juventus, Inter,
Barcellona, Barcellona, Barcellona, Barcellona, Inghilterra, Milan,
Real Madrid, Olanda, Milan, Barcellona, Chelsea, Real Madrid,
Barcellona, Costa d’Avorio, Paris St. Germain, Inter, Barcellona,
Barcellona, Barcellona, Barcellona, Barcellona, Milan, Chelsea. Milan,
Milan, Barcellona, Barcellona, Brasile, Barcellona, Milan, Milan,
Barcellona, Chelsea, Liverpool, Barcellona, Barcellona, Inghilterra,
Milan, Milan, Barcellona, Milan, Senegal, Milan, Milan, Milan, Brasile,
Barcellona, Cameroun, Milan.
Il terzo giorno mi ero stancato avevo
smesso di segnarmele però poi l’ultimo giorno, la cosa che avevo pensato
prima di partire avevo pensato “Ecco, domani sono in Italia, smetto di
vedere tutte queste magliette del Milan”. E questa credo sarà una cosa
che dirò nella trasmissione radiofonica che faremo in novembre, sempre
che dentro di me non si stia muovendo il virus mortale della malaria nel
qual caso pazienza, va bene anche così.
Con AMREF, Nori è stato in Senegal e presto ne scriverà un racconto breve, che sarà letto su Radio3 in inverno. Ma intanto ci ha regalato una suggestione della "sua Africa" attraverso un lungo post suo blog www.paolonori.it
La mia Africa
venerdì 23 agosto 2013
martedì 30 luglio 2013
La soluzione nasce sempre da dentro
Un sesto della popolazione della Terra non ha ancora accesso ad acqua pulita e 2,6 miliardi di persone, circa due quinti degli abitanti del Mondo, non hanno accesso ad adeguati servizi igienici. In Africa subsahariana più del 40% della popolazione vede quotidianamente violato il suo diritto all'accesso a fonti idriche sicure.
Tante volte ho ricercato, elaborato e divulgato questi dati, ma non c'è niente da fare: mi è impossibile trattarli come semplice materia di studio e di lavoro.
Ogni volta che vedo i miei figli sotto la doccia, penso ai milioni di bambini che muoiono a causa di tifo, colera, dissenteria, e gastroenterite. Oggi, anno 2013.
Ogni volta che apro il rubinetto per lavare l'insalata, mi si parano davanti le tante donne che ho visto in Uganda, scalze o poco più, in strada per chilometri per raggiungere una fonte d'acqua pulita, con taniche da 20 litri sulla testa e bambini infagottati sulle spalle.
Ma penso anche al lavoro di AMREF, a ciò che ho visto con i miei occhi: alla costruzione di pozzi, cisterne e acquedotti, alle sorgenti protette, alla formazione di tecnici e di comitati di gestione. Ricordo i sorrisi larghi e la dignità ora festosa, ora composta di tutti gli africani che ho incontrato, quelli impegnati nei centri di salute, quelli che ogni giorno fanno il giro, villaggio per villaggio, per portare prevenzione e cure di base. Per le comunità ma CON le comunità.
Penso, in quest'estate afosa e senza vento in cui ora mi trovo, che davanti alla povertà e alle ineguaglianze il rimedio più efficace sia la partecipazione. Penso che la soluzione nasca sempre da dentro, e alla lezione che AMREF mi ha insegnato.
Valeria Sabato, Ufficio stampa, AMREF Italia
Tante volte ho ricercato, elaborato e divulgato questi dati, ma non c'è niente da fare: mi è impossibile trattarli come semplice materia di studio e di lavoro.
Ogni volta che vedo i miei figli sotto la doccia, penso ai milioni di bambini che muoiono a causa di tifo, colera, dissenteria, e gastroenterite. Oggi, anno 2013.
Ogni volta che apro il rubinetto per lavare l'insalata, mi si parano davanti le tante donne che ho visto in Uganda, scalze o poco più, in strada per chilometri per raggiungere una fonte d'acqua pulita, con taniche da 20 litri sulla testa e bambini infagottati sulle spalle.
Ma penso anche al lavoro di AMREF, a ciò che ho visto con i miei occhi: alla costruzione di pozzi, cisterne e acquedotti, alle sorgenti protette, alla formazione di tecnici e di comitati di gestione. Ricordo i sorrisi larghi e la dignità ora festosa, ora composta di tutti gli africani che ho incontrato, quelli impegnati nei centri di salute, quelli che ogni giorno fanno il giro, villaggio per villaggio, per portare prevenzione e cure di base. Per le comunità ma CON le comunità.
Penso, in quest'estate afosa e senza vento in cui ora mi trovo, che davanti alla povertà e alle ineguaglianze il rimedio più efficace sia la partecipazione. Penso che la soluzione nasca sempre da dentro, e alla lezione che AMREF mi ha insegnato.
Valeria Sabato, Ufficio stampa, AMREF Italia
venerdì 26 luglio 2013
Un lavoro e una rete per non cedere all'HIV
AMREF lavora in Etiopia sin dagli anni
’60. Oggi sono attivi 23 progetti in 4 regioni del paese: Addis Abeba, Afar,
SNNPR e Oromiya. Insieme a Lisan, una giovane collega, mi inoltro nello slum di Kechene, ad Addis Abeba, per visitare un progetto di assistenza a
malati di HIV, in particolare donne.
Anche Kechene, come tutti gli slum che ho visitato, si sviluppa in un dedalo di vicoli su cui si affacciano case e botteghe di ogni tipo, la maggior parte delle quali costruite con fango e lamiera. C’è un fermento continuo, la vita non si ferma mai e nemmeno gli "affari", che portano tantissime persone a percorrere queste piccole e contorte strade sia di giorno che di notte.
Abbandoniamo l’auto che a un certo punto non può più proseguire e ci avviamo a piedi ad incontrare un gruppo di donne sieropositive che, formate da AMREF, si occupa di produzione di artigianato.
Di fronte all’ingresso di un capannone sono raccolte tante tazze, teiere, coppe e ad aspettarci c’è Tigest Wendon, leader del gruppo: “Noi ci occupiamo di produrre i contenitori utilizzati per preparare il caffè nel modo tradizionale etiope, che prevede l’uso di carboni ardenti” dice Tigest, una donna energica e con uno sguardo cristallino, che ci tiene a farmi vedere anche le materie prime necessarie alla produzione dei manufatti. Oltre ai tre componenti necessari a realizzare la pasta da modellare e all’acqua, fondamentale è il combustibile per il forno “realizzato grazie ad AMREF” - come tiene a precisare Tigest - costituito da foglie e piccoli rami, “che raccogliamo da sole nei boschi per risparmiare”. Legna e letame “ottimo, ma costoso!” mi dice Tigest ridendo insieme a Lisan.
“Siamo un gruppo che si è formato da circa tre anni, e da un anno siamo qui.” mi racconta Tigest. “Siamo tutte donne ed abbiamo un’età media di 29 anni”, donne affette da HIV. Tigest non parla volentieri della sua condizione perché in Etiopia l’HIV è ancora uno stigma molto discriminante, che può anche impedire di trovare una casa in affitto perché i proprietari non vogliono avere malati di HIV nelle proprie abitazioni. “Il nostro è un gruppo strutturato, con una leader, una segretaria ed una tesoriera. Abbiamo l’impegno a versare alla cassa comune 10 birr al mese (circa 50 cents, ndr) con cui paghiamo l’affitto e compriamo le materie prime per la produzione. Ognuna di noi poi produce e vende per se ai mercati della città ed altre occasioni particolari, come le fiere. AMREF ci ha permesso di diventare un gruppo riconosciuto, per questo abbiamo ottenuto l’affitto di questa struttura da parte del governo, ci ha fornito la formazione tecnica sulla gestione del gruppo e sulle modalità di vendita dei nostri prodotti, in questo modo ad esempio abbiamo abbassato molto le spese di produzione, e ci ha sostenuto nella realizzazione del forno che ci ha permesso di raddoppiare la produzione. Insomma la nostra vita è cambiata completamente e siamo molto orgogliose.”
Azzardo un’osservazione: “Immagino che anche i vostri mariti e le vostre famiglie siano felici di questa situazione”. Tigest mi guarda con un sorriso un po’ sarcastico e risponde: “Tutte noi abbiamo figli, poche anche un marito. Siamo noi la nostra famiglia, noi e i nostri figli. E ho un sogno: avere qualcuno che disegni per noi dei prodotti nuovi, per permetterci si espandere la produzione”.
Anche Kechene, come tutti gli slum che ho visitato, si sviluppa in un dedalo di vicoli su cui si affacciano case e botteghe di ogni tipo, la maggior parte delle quali costruite con fango e lamiera. C’è un fermento continuo, la vita non si ferma mai e nemmeno gli "affari", che portano tantissime persone a percorrere queste piccole e contorte strade sia di giorno che di notte.
Abbandoniamo l’auto che a un certo punto non può più proseguire e ci avviamo a piedi ad incontrare un gruppo di donne sieropositive che, formate da AMREF, si occupa di produzione di artigianato.
Di fronte all’ingresso di un capannone sono raccolte tante tazze, teiere, coppe e ad aspettarci c’è Tigest Wendon, leader del gruppo: “Noi ci occupiamo di produrre i contenitori utilizzati per preparare il caffè nel modo tradizionale etiope, che prevede l’uso di carboni ardenti” dice Tigest, una donna energica e con uno sguardo cristallino, che ci tiene a farmi vedere anche le materie prime necessarie alla produzione dei manufatti. Oltre ai tre componenti necessari a realizzare la pasta da modellare e all’acqua, fondamentale è il combustibile per il forno “realizzato grazie ad AMREF” - come tiene a precisare Tigest - costituito da foglie e piccoli rami, “che raccogliamo da sole nei boschi per risparmiare”. Legna e letame “ottimo, ma costoso!” mi dice Tigest ridendo insieme a Lisan.
“Siamo un gruppo che si è formato da circa tre anni, e da un anno siamo qui.” mi racconta Tigest. “Siamo tutte donne ed abbiamo un’età media di 29 anni”, donne affette da HIV. Tigest non parla volentieri della sua condizione perché in Etiopia l’HIV è ancora uno stigma molto discriminante, che può anche impedire di trovare una casa in affitto perché i proprietari non vogliono avere malati di HIV nelle proprie abitazioni. “Il nostro è un gruppo strutturato, con una leader, una segretaria ed una tesoriera. Abbiamo l’impegno a versare alla cassa comune 10 birr al mese (circa 50 cents, ndr) con cui paghiamo l’affitto e compriamo le materie prime per la produzione. Ognuna di noi poi produce e vende per se ai mercati della città ed altre occasioni particolari, come le fiere. AMREF ci ha permesso di diventare un gruppo riconosciuto, per questo abbiamo ottenuto l’affitto di questa struttura da parte del governo, ci ha fornito la formazione tecnica sulla gestione del gruppo e sulle modalità di vendita dei nostri prodotti, in questo modo ad esempio abbiamo abbassato molto le spese di produzione, e ci ha sostenuto nella realizzazione del forno che ci ha permesso di raddoppiare la produzione. Insomma la nostra vita è cambiata completamente e siamo molto orgogliose.”
Azzardo un’osservazione: “Immagino che anche i vostri mariti e le vostre famiglie siano felici di questa situazione”. Tigest mi guarda con un sorriso un po’ sarcastico e risponde: “Tutte noi abbiamo figli, poche anche un marito. Siamo noi la nostra famiglia, noi e i nostri figli. E ho un sogno: avere qualcuno che disegni per noi dei prodotti nuovi, per permetterci si espandere la produzione”.
Gian Paolo Vassallo, operatore AMREF Italia
martedì 16 luglio 2013
Di Lampedusa e degli Indifferenti
Ho seguito la visita di Papa Francesco a Lampedusa, lo scorso lunedì 1 luglio. E ho guardato le immagini, quelle forti viste nei TG dei tanti sbarchi e non solo, quelle viste dal vivo, quelle viste nei viaggi fatti in Africa con AMREF. L’insieme di queste immagini crea un’emozione, un sentimento, una riflessione che va “mantenuta”, approfondita, sulla quale vale la pena interrogarsi e creare magari anche una discussione.
Penso ai tanti uomini e donne e bambini incontrati qui in Italia, e giù in Africa. E alle loro tante, diverse storie. Ai loro percorsi, quelli fatti, quelli da fare.
La visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola le cui coste sono quelle degli sbarchi, quelle delle tratte dei migranti, dei contrabbandieri di disperazione, di corpi di uomini, donne, bambini nati e da venire, in fuga. In cerca di riparo.
Penso alle immagini di incontri, di viaggi e di esperienze di lavoro con colleghi africani, ad una forma di una cooperazione e collaborazione che supera e va oltre i confini e genera progetti, sviluppo, miglioramento nelle condizioni di vita di una famiglia, di un villaggio, di una comunità. Di un mondo intero…
Questo è quello che dovremmo continuare a fare, a pensare, a volere. Migliorare le condizioni di vita, partendo dal basso, dalle reali esigenze e necessità di una cultura locale, di tradizioni, e condizioni climatiche ed ambientali, socio economiche e sociali.
Cambiare e progettare e costruire insieme.
Perché è difficile scegliere di recidere i tanti legami, le proprie radici con il paese nel quale sei nato, e spesso cresciuto. Allontanarsi dalla lingua che ti ha insegnato tua madre, quella lingua condivisa con la tua comunità, con un popolo che ti riconosceva uno dei suoi membri.
Ma al tempo stesso è necessario accogliere chi non può rimanere nel proprio paese, in attesa magari di un governo eletto democraticamente, o di interventi che possano generare lavoro, o di sistemi sanitari adeguati, di poter nascere e crescere “con una prospettiva di vita”. Dobbiamo poter offrire un’istruzione per tutti indistintamente, quelle condizioni di vita minime, che sono o perlomeno dovrebbero essere garantite ad ogni uomo, ad ogni donna, ad ogni figlio che viene al mondo.
E troppo spesso non è così.
Invece viene negato anche il diritto di migrare, il diritto di scegliere un paese diverso, il diritto di cercare condizioni di vita migliori.
Quelle barche che partono dall’Africa e arrivano nella nostra Europa, nella nostra bella Italia, anzichè vie di speranza diventano, troppo spesso, vie di morte, come ha detto a Lampedusa Papa Francesco.
Che punta il dito contro quella che da oggi in poi tutti chiameremo “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Beh, io odio gli indifferenti…
Gabriella Guido, Ufficio Comunicazione, AMREF Italia
Penso ai tanti uomini e donne e bambini incontrati qui in Italia, e giù in Africa. E alle loro tante, diverse storie. Ai loro percorsi, quelli fatti, quelli da fare.
La visita di Papa Francesco a Lampedusa, isola le cui coste sono quelle degli sbarchi, quelle delle tratte dei migranti, dei contrabbandieri di disperazione, di corpi di uomini, donne, bambini nati e da venire, in fuga. In cerca di riparo.
Penso alle immagini di incontri, di viaggi e di esperienze di lavoro con colleghi africani, ad una forma di una cooperazione e collaborazione che supera e va oltre i confini e genera progetti, sviluppo, miglioramento nelle condizioni di vita di una famiglia, di un villaggio, di una comunità. Di un mondo intero…
Questo è quello che dovremmo continuare a fare, a pensare, a volere. Migliorare le condizioni di vita, partendo dal basso, dalle reali esigenze e necessità di una cultura locale, di tradizioni, e condizioni climatiche ed ambientali, socio economiche e sociali.
Cambiare e progettare e costruire insieme.
Perché è difficile scegliere di recidere i tanti legami, le proprie radici con il paese nel quale sei nato, e spesso cresciuto. Allontanarsi dalla lingua che ti ha insegnato tua madre, quella lingua condivisa con la tua comunità, con un popolo che ti riconosceva uno dei suoi membri.
Ma al tempo stesso è necessario accogliere chi non può rimanere nel proprio paese, in attesa magari di un governo eletto democraticamente, o di interventi che possano generare lavoro, o di sistemi sanitari adeguati, di poter nascere e crescere “con una prospettiva di vita”. Dobbiamo poter offrire un’istruzione per tutti indistintamente, quelle condizioni di vita minime, che sono o perlomeno dovrebbero essere garantite ad ogni uomo, ad ogni donna, ad ogni figlio che viene al mondo.
E troppo spesso non è così.
Invece viene negato anche il diritto di migrare, il diritto di scegliere un paese diverso, il diritto di cercare condizioni di vita migliori.
Quelle barche che partono dall’Africa e arrivano nella nostra Europa, nella nostra bella Italia, anzichè vie di speranza diventano, troppo spesso, vie di morte, come ha detto a Lampedusa Papa Francesco.
Che punta il dito contro quella che da oggi in poi tutti chiameremo “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Beh, io odio gli indifferenti…
Gabriella Guido, Ufficio Comunicazione, AMREF Italia
martedì 9 luglio 2013
Waithaka, dove batte il cuore di Dagoretti
Dagoretti è tante cose.
Dagoretti è una delle nove
Divisioni della città di Nairobi, in Kenya. Un’area di circa 40 chilometri,
all’interno della quale la popolazione è cresciuta da 40.000 a 240.000 abitanti
nell’arco di 40 anni. 240.000 persone che vivono su un
territorio di proprietà governativa, alle quali il governo concede l’utilizzo
della terra, ma non la proprietà. È categoricamente vietato costruire case in
muratura o infrastrutture e le persone vivono in baracche di legno e fango,
stipate le une sulle altre senza alcuna soluzione di continuità, in un ambiente
insalubre che odora di discarica.
Gli slum sono la manifestazione spaziale e materiale
della povertà urbana e delle disuguaglianze all’interno della città. Le
condizioni di vita negli slum sono terribili, mancano tutti i servizi di base, elettricità, fognature, acqua potabile, ospedali. Nello slum di Dagoretti vivono più di
100.000 ragazzi e il 34% di questi sono stati identificati come ragazzi con
bisogno di protezione sociale: ragazzi di strada, minori lavoratori, ragazzi
trascurati che hanno subito violenze fisiche o psicologiche, orfani, ragazzi
che hanno lasciato la scuola. Sono vittime quotidianamente della fame, delle
malattie, della droga, dell’abbandono, della discriminazione e del crimine.
Del resto, anche il Centro di Waithaka, come Dagoretti, è tante cose.
Dal
2011, per questi ragazzi, ai margini di Dagoretti è sorta un’isola felice.
Una struttura ampia
e nuova, di proprietà di AMREF, dove possono recarsi ogni giorno e all’interno
della quale non solo trovano risposta ai loro bisogni di base, come
la salute, l’igiene e la nutrizione, ma diventano sempre più consapevoli anche dei loro
diritti di esseri umani.
Il Children Village, così viene chiamato il
Centro di Dagoretti per il recupero dei ragazzi di strada, è l’ultimo grande
risultato di un percorso iniziato dieci anni prima nel cuore stesso dello slum,
a Waithaka.
Rispetto alla vera e propria oasi del Children village, il
centro di Waithaka non è altro che un agglomerato di orticelli e monolocali.
Eppure nel percorrerne il vialetto interno, complice la silenziosa quiete che
non ti aspetteresti di trovare in uno slum, si ha l’impressione di essere nel
giardino dell’Eden, un luogo dove i diritti primari di ogni essere umano
vengono messi nella coscienza della gente comune, vengono nutriti e accuditi.
Primo
tra tutti, il diritto di esistere.
Se
doveste pensare al momento della vostra vita in cui avete iniziato ad esistere
agli occhi della società, forse come me pensereste al momento in cui siete stati
partoriti.
E
invece no. L’istante preciso in cui abbiamo iniziato
ad esistere in questa società, è stato quando nostra madre ha firmato per noi
il certificato di nascita!
In
Africa la condizione è la stessa. Con la non trascurabile differenza che soltanto
il 24% dei bambini del Kenya ne possiede uno. *
Non
tutte le madri infatti, appena partoriscono, registrano all’anagrafe il
proprio piccolo. Non certo per cattiveria, ma per una questione di cultura e di
necessità, perchè gli uffici presso i quali è possibile richiedere il
certificato sono troppo lontani da casa; perché non partoriscono in ospedale,
dove il certificato viene rilasciato automaticamente; perché esistono ancora
residui di una vecchia tradizione, per la quale nessuna donna poteva richiedere
un certificato o un documento personale senza il permesso di un padre o di un
marito.
In uno
slum, dove si vive costretti in un recinto di povertà, talmente alto da non poter
scorgere nessun orizzonte, e senza servizi di base come l’assistenza sanitaria
e la scuola, le madri semplicemente non posso immaginare l’importanza a lungo
termine di un certificato di nascita.
Una
scartoffia che, tra le tante cose, ti apre la porta del NCIF, il sistema
sanitario keniota (cosicchè se hai bisogno di cure mediche presso un ospedale
pubblico, le spese vengono coperte in parte dall’ ospedale stesso), ma anche
dell’istruzione (senza certifcato di nascita non puoi sostenere esami, non puoi
diplomarti e quindi non puoi fare affidamento nemmeno sulla tua educazione per
uscire dalla situazione di degrado nella quale sei nato).
Per
questo, in uno dei monolocali di Waithaka, ogni giorno un collega africano di
AMREF incontra le donne della comunità che hanno bisogno di un aiuto con la
burocrazia kenyota. Quando gli ho chiesto qual era il suo lavoro nello
specifico, mi aspettavo un dettagliato resoconto della sua giornata tipo tra un
ufficio e l’altro. Ma lui ha
risposto solamente: “empowering comunities”, dare potere alle comunità
africane.
È un
piccolo vivaio, dove frutta e ortaggi vengono coltivati all’interno di pile di
pneumatici ricolmi di terra. Perché nello slum non ci sono grandi appezzamenti da coltivare, per questo si cerca di insegnare alla comunità modi nuovi e
funzionali per provvedere alla propria sussistenza alimentare.
Waithaka è una
scuola. C’è una sola aula, le cui pareti sono decorate da giganti
lettere dell’alfabeto, ma le lezioni non vengono tenute per i bambini, bensì
per tutte le donne della comunità che anche in età avanzata hanno capito che
non è mai troppo tardi per migliorare la propria condizione.
Waithaka
è anche una biblioteca. Un locale pulito e tranquillo per incontrarsi, dove
fare i compiti, comporre un puzzle, leggere un libro che arriva da lontano oppure
un quotidiano.
Un luogo dove la
miseria non può entrare e dove pagina dopo pagina, parola dopo parola, il
recinto della povertà cede sotto i colpi di una coscienza umana nutrita e su di
esso si aprono lunghe crepe, finestre su un domani ancora da conquistare.
Giulia Calanca, Operatrice AMREF Italia
* Kenya Demographic Health Survey
2008-2009.
venerdì 28 giugno 2013
Un pomeriggio al dispensario di Ilatu, dove nasce il futuro dell'Africa
Arriviamo al dispensario di Ilatu nel distretto di Makindu, Kenya, intorno alle 11, dopo circa 2 ore di macchina su strada sterrata, circondati da arbusti, baobab e tanta polvere di terra rossa. Siamo a 40 chilometri dalla città di Makindu, dove si trova l’unico ospedale della zona.
In quest’area la siccità e il caldo si fanno particolarmente sentire, la popolazione sta attendendo le piogge previste per fine mese e ha iniziato a preparare il terreno per le piccole coltivazioni. Chissà come andrà quest'anno... Negli ultimi cinque anni la pioggia è stata poca, comunque inferiore alla media stagionale...
Certo, viaggiando per queste strade ci si rende conto di quanto l’acqua sia fondamentale per tutto, di quanto senza acqua non si possa andare lontano, tanto meno camminare sotto il sole cocente con un figlio in grembo. Ricordo la mia di gravidanza a giugno, al 9° mese, con il fiatone e il caldo; mi ci voleva sempre un gelato nel breve tragitto di 20 minuti a piedi da casa all’ospedale per il monitoraggio.
Le donne che attendono pazientemente il loro turno di visita all’ombra di una acacia davanti al dispensario sono in silenzio, sanno della nostra visita e ci scrutano. Sono una quarantina, fiere, composte, con i bimbi in braccio o legati sulla schiena.
Il dispensario di Ilatu è una semplice costruzione di mattoni con due stanze per le visite e null’altro, ed è il punto di riferimento per circa 9.000 persone. Non c’è acqua potabile, non ci sono servizi igienici. Ci si rende conto subito che di tratta di una struttura povera, un avamposto; di proprietà del Ministero della Salute e gestito da Mwangia, un'infermiera professionale. E’ utilizzato da AMREF come punto di appoggio due volte al mese, per visitare donne e bambini, vaccinare, istruire le mamme durante la gravidanza e convincerle a partorire in una struttura sanitaria in modo più sicuro.
Mwangia è aiutata da quattro operatori sanitari comunitari (Community Health Workers) aderenti al progetto di AMREF ed incaricati di istruire le mamme nelle varie fasi della visita a loro e ai loro bambini. Durante la prima visita di monitoraggio della crescita del bambino viene loro consegnato un libretto per raccogliere e aggiornare le informazioni relative alla salute del bambino, che viene aggiornato di volta in volta dall’operatore sanitario. I bambini sono pesati uno ad uno con una bilancia appesa ad un albero. Due operatori tentano di distrarre i bimbi per evitare – con poca fortuna – i pianti sfrenati dei piccoli che si trovano, loro malgrado, sospesi nel vuoto, infilati in una sorta di salopette per essere appesi e pesati. O forse piangono ancora di più per la presenza di adulti stranamente bianchi, che non sono ancora abituati a vedere in queste zone così difficili e remote.
Dopo la pesa, i bimbi vengono misurati nella parte alta del braccio con il braccialetto usato per valutare la malnutrizione. Questo strumento è particolarmente utile in situazioni in cui altre apparecchiature non sono disponibili, o se non sono note con precisione le date di nascita dei bambini. Il libretto per monitorare la crescita dei bambini, che è distribuito dai CHWs alle neo mamme, viene aggiornato con il peso odierno. Una degli operatori sanitari spiega alle mamme in attesa l’importanza di conservare e portare sempre con sé il libretto sanitario per loro e i loro bambini. Il semplice uso di questo mezzo rappresenta una innovazione in questo distretto, che mira a colmare un po’ quella carenza di informazioni demografiche e sanitarie dei membri di questa comunità.
Mwangia intanto è impegnata in une delle due stanze con le vaccinazioni dei bambini. È il turno di Mwongeca Mulandi, un bel maschietto di circa 1 anno e quasi 12 chili di peso. La mamma ha seguito i consigli ricevuti dagli operatori sanitari e lo ha allattato esclusivamente al seno fino a 7 mesi, portandolo a visitare e vaccinare. I bambini sono segnati nel registro delle vaccinazioni del distretto insieme ai loro dati e quelli dei genitori, e Mwongeca è il 25° di questa mattina.
Lentamente mi avvicino ad alla seconda stanza, è in corso una visita ad una donna in gravidanza avanzata, se ne occupa Mauva, un’ostetrica professionale che aiuta Mwangia al dispensario. Chiedo gentilmente il permesso di entrare, che mi viene concesso con un sorriso e mi trovo faccia a faccia con un enorme pancione e una mamma di 25 anni che lo accarezza orgogliosa sdraiata sul lettino. Il suo nome è Ngina, e alla sua giovane età è già mamma di 4 bambini. Questa è però la prima gravidanza assistita, con visite di controllo, il test per l’HIV ogni 6 mesi e lo screening per il cancro alla cervice che sarà eseguito 2 mesi dopo il parto. Ngina mi racconta del cambiamento avvenuto nella sua vita: grazie alle visite a casa dei CHWs e delle levatrici tradizionali, si è convinta che era importante per la sua salute e quella del suo bambino essere assistita durante questa gravidanza. Insieme al marito, ha partecipato agli incontri sul family planning organizzati dai CHWs, Insieme hanno deciso che dopo il parto useranno un metodo anticoncezionale, suggeritogli da Mauva con impianto sottocutaneo per il rilascio di ormoni con una durata di 3 anni. Ngina sa anche che questo non può proteggerla da malattie trasmesse sessualmente come l’AIDS, vorrebbe chiedere al marito di utilizzare il preservativo.
Sono stupita dalla forza e dalla convinzione di questa giovane donna, e tutto questo mi convince ancora di più dell’importanza di raggiungere ogni angolo remoto di questo magnifico ma tanto difficile paese, con servizi clinici adeguati e la formazione dei CHWs.
Sono 8 anni che lavoro con AMREF in Italia e mi occupo del monitoraggio dei progetti di sviluppo come questo. Molti risultati acquisiti nel corso degli anni dimostrato che coinvolgere la comunità in qualità di partner consente di accelerare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi del millennio per la salute. Le persone delle comunità formate come operatori sanitari hanno una grande importanza nel fornire quell’assistenza che è spesso vitale per le persone che vivono in realtà con risorse insufficienti. Sono il mezzo per colmare il divario tra i sistemi sanitari e le comunità rurali svantaggiate; per migliorare l'accesso alla sanità di buona qualità, soprattutto in ambito materno-infantile, nelle vaccinazioni, nell'alimentazione, nei servizi di pronto soccorso.
Forse è proprio questa la strada affinché la desiderata "Salute per tutti" qui diventi una realtà.
Roberta Bernocco, Project Manager – Programme Unit, AMREF Italia
mercoledì 26 giugno 2013
L’infamia. Nel tempo
Se non sapevano quello
che facevano fu per non volerlo sapere... che non è una scusa ma bensì una
colpa.
Così scriveva nella prima metà dell’800 Alessandro Manzoni
(in Storia della colonna infame) per ambientare i delitti che furono compiuti
contro innocenti durante la peste del 1630 da una giustizia che cercava dei
colpevoli in luogo della verità.
Questa brutta vicenda umana è stata ricordata da una compagnia
di rifugiati/attori, ragazzi e ragazze arrivati in Italia da diversi paesi del
continente africano – Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Congo, Guinea – e che
hanno provato attraverso il teatro a far capire la loro storia, raccontare i
loro sogni, le loro attese. E, seguendo uno schema binario, hanno ripercorso il
saggio del Manzoni accompagnando in parallelo lo spettatore nella loro vicenda.
Forti emozioni sono state evocate dalla leggerezza di corpi
nati per ballare, cantare, giocare e che invece hanno conosciuto la tortura, la
segregazione, l’esilio, la prigionia.
Un’ora e mezzo di lingue africane intrise di musicalità, di
scenari mai mostrati sebbene protagonisti, hanno condotto chi guardava
nell’immaginazione di una vita che solo in parte crediamo di conoscere. Quella
di chi viene incolpato di viaggio – come dice Erri De Luca – e per questo
subisce tortura, un metodo per annientare l’identità umana e far soccombere
una persona. Senza sentirsi assassino.
Teneri, belli, appassionati: questi attori improvvisati –
bravissimi perché recitavano se stessi e generazioni di altri sé – hanno
ricordato a chi era presente che tanto c’è ancora da fare per liberare questo
mondo dall’ingiustizia e dall’arroganza che nascono dall’ignoranza creando le
condizioni per un dolore infinito.
25 giugno: Giornata Internazionale a sostegno delle vittime
di tortura. Il CIR, Antigone e la campagna LasciateCIEntrare l’hanno celebrata
così.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
lunedì 24 giugno 2013
Mary non scappa
Mary non ha più di 13 anni, vive nella baracche dei soldati alle porte di Maridi, in Sud Sudan.
Mary è dinka, meno di due anni fa si è trasferita con tutta la famiglia a Maridi seguendo il lavoro di papà.
Mary non si ricorda bene di Papà, soldato del Sud Sudan, che poco dopo il trasferimento a Maridi fu mandato nella divisione di Jongley State, lasciandola sola con Mamma e gli altri.
Mary non mi parla, ma si capisce al volo che vorrebbe provare la penna che sto usando per scrivere sul quaderno.
Mary è un poco timida. Non mi guarda sempre negli occhi, ma l’infantile curiosità vince su ogni incertezza e s’avvicina. Ma poi scappa via in fretta.
Mary è tornata a sedersi accanto a Mamma sulla panca, sbirciandomi e girando poi il capo per nascondere sorrisi divertiti.
Mary non scappa quando m’avvicino e mi siedo accanto a loro porgendole la penna.
Mary non scappa, no. Mary sapeva che l’avrei seguita, per conoscere la Mamma.
Mary non ringrazia prendendo la penna, ma la guarda e la mette in tasca. Poi la riprende, la guarda di nuovo e prova a scrivere col tappo ancora sulla punta della biro.
Mary non mi guarda intimidita quando tolgo il cappuccio dalla punta e le mostro come scrivere. Mary impugna la penna nuovamente e traccia linee blu sul foglio del quaderno poggiato sulle ginocchia.
Mary ora guarda la mamma, tiene la penna stretta in pugno. La mamma guarda me e mi confida qualcosa in un arabo mischiato, un idioma che forse si trascina i resti dei molteplici trasferimenti.
Mary ci guarda, tutti e tre. Guarda la Mamma, guarda me e guarda Charles, l’operatore AMREF che si è avvicinato per tradurre all’una e alle altre. Le confidenze sulla vita di Mary, sul suo presente e il prossimo futuro.
Mary mi guarda mentre ascolto le parole in Inglese di Charles, Mary che non frequenta la scuola, Mary che deve aiutare la Mamma a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più giovani.
Mary ora si alza dalla panca dell’ingresso del Dipartimento di Maternità pronta a seguire la Mamma, che ci saluta dopo aver ricevuto i risultati degli esami.
Mary mi saluta da lontano con la il braccio alzato e la penna in pugno mentre s’allontana con la Mamma che ha accompagnato all’Ospedale di Maridi.
Mary presto avrà un altro fratellino o forse una nuova sorellina di cui prendersi cura.
Dedicato a tutte le Mary del Sud Sudan.
Cristina Raho, Project Manager – Programme Unit, AMREF Italia
Mary è dinka, meno di due anni fa si è trasferita con tutta la famiglia a Maridi seguendo il lavoro di papà.
Mary non si ricorda bene di Papà, soldato del Sud Sudan, che poco dopo il trasferimento a Maridi fu mandato nella divisione di Jongley State, lasciandola sola con Mamma e gli altri.
Mary non mi parla, ma si capisce al volo che vorrebbe provare la penna che sto usando per scrivere sul quaderno.
Mary è un poco timida. Non mi guarda sempre negli occhi, ma l’infantile curiosità vince su ogni incertezza e s’avvicina. Ma poi scappa via in fretta.
Mary è tornata a sedersi accanto a Mamma sulla panca, sbirciandomi e girando poi il capo per nascondere sorrisi divertiti.
Mary non scappa quando m’avvicino e mi siedo accanto a loro porgendole la penna.
Mary non scappa, no. Mary sapeva che l’avrei seguita, per conoscere la Mamma.
Mary non ringrazia prendendo la penna, ma la guarda e la mette in tasca. Poi la riprende, la guarda di nuovo e prova a scrivere col tappo ancora sulla punta della biro.
Mary non mi guarda intimidita quando tolgo il cappuccio dalla punta e le mostro come scrivere. Mary impugna la penna nuovamente e traccia linee blu sul foglio del quaderno poggiato sulle ginocchia.
Mary ora guarda la mamma, tiene la penna stretta in pugno. La mamma guarda me e mi confida qualcosa in un arabo mischiato, un idioma che forse si trascina i resti dei molteplici trasferimenti.
Mary ci guarda, tutti e tre. Guarda la Mamma, guarda me e guarda Charles, l’operatore AMREF che si è avvicinato per tradurre all’una e alle altre. Le confidenze sulla vita di Mary, sul suo presente e il prossimo futuro.
Mary mi guarda mentre ascolto le parole in Inglese di Charles, Mary che non frequenta la scuola, Mary che deve aiutare la Mamma a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più giovani.
Mary ora si alza dalla panca dell’ingresso del Dipartimento di Maternità pronta a seguire la Mamma, che ci saluta dopo aver ricevuto i risultati degli esami.
Mary mi saluta da lontano con la il braccio alzato e la penna in pugno mentre s’allontana con la Mamma che ha accompagnato all’Ospedale di Maridi.
Mary presto avrà un altro fratellino o forse una nuova sorellina di cui prendersi cura.
Dedicato a tutte le Mary del Sud Sudan.
Cristina Raho, Project Manager – Programme Unit, AMREF Italia
venerdì 21 giugno 2013
Valigie
Ieri ho ascoltato la ministra Kyenge parlare di una valigia. Quella che si porta dietro da anni, riempiendola di emozioni, di sfide, di libertà, di progetti. Mai nella sua valigia trovano posto gli insulti e le violenze - e sappiamo quanti ne ha ricevuti nelle ultime settimane da nostri connazionali che vedono nel colore della sua pelle una minaccia. Semplicemente, lei dice, non trovano posto nella mia valigia.
Ieri si celebrava la Giornata Mondiale del Rifugiato e la ministra parlava delle fughe, delle speranze di quelli che scappano. Cécile Kyenge rappresenta per tutti loro la possibilità di cavarsela.
Sembra difficile colmare la distanza tra un bel discorso - che fatto da una congolese che sa di cosa parla è già molto più di un bel discorso - e la vita reale di milioni di persone che fuggono da violenze, da povertà, da malattie non curabili a casa propria.
Eppure ci sono molti modi.
Per esempio. Tutti noi abbiamo una valigia nella quale trovano posto ricordi, sentimenti, esperienze, relazioni che fanno di noi persone con un passato, un presente e un futuro. Il futuro negato a troppe persone in giro per il mondo. Per salvare molte di loro, basterebbe che nelle nostre valigie entrassero anche la solidarietà, la curiosità e l'amore per l'altro, la benevolenza, la giustizia. Non è un carico pesante anzi. E' probabile che renda le nostre esistenze più leggere, gioiose e vissute in un'armonia che rende liberi.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
martedì 18 giugno 2013
Ossiuri
«Buongiorno.
Nella classe blu si è verificato un caso di ossiuri. Controllate i vostri
bambini». Il
messaggio arrivava dalla rappresentante di classe di mio figlio piccolo che ha
tre anni e che, negli ultimi mesi di scuola materna, è scampato miracolosamente
all’assalto dei pidocchi, a un’epidemia di varicella e a quella di un’altra
malattia esantematica che si chiama mani-piedi-bocca.
Non
avevo la più pallida idea di cosa fossero gli ossiuri. E, felicemente ignara, non sentivo il peso
della lacuna. Ho scoperto che sono dei parassiti che somigliano a vermi,
bianchi e filamentosi. Si annidano nell’intestino e provocano un’infezione
piuttosto fastidiosa. La prospettiva di un’invasione di queste infide e
disgustose creature all’interno del mio bambino mi ha gettato per un attimo nel
più cupo sconforto. Poi
ho letto che basta una pastiglia per debellarli, così come basta uno shampoo
per cacciare i pidocchi e molta pazienza per far passare varicella e
mani-piedi-bocca. E ho pensato che ci sono motivi migliori per farsi prendere
da panico e sconforto.
Durante
il mio viaggio in Uganda con AMREF, una mattina ci siamo fermati a visitare un
presidio ospedaliero. Abbiamo parcheggiato la macchina e siamo scesi. Un
bambino - avrà avuto l’età di mio figlio piccolo, quello che rischia gli ossiuri
- si è avvicinato alla jeep, quatto quatto. Ha raccolto un sasso da terra e lo
ha lanciato contro il cofano. Occhi grandi, sguardo di sfida, una maglietta
bianca con una scritta che parlava del suo papà, il piglio del bandito
professionista. Compiuta la sua eroica e trasgressiva prodezza, colto da panico
o senso di colpa improvviso, è corso fulmineo a nascondersi tra le gambe della
sua mamma, deponendo i panni del malvivente e riprendendo quelli del bimbetto
che era. L’ho fotografato, nel suo rifugio fatto di gambe e di gonna.
L’immagine
di quel bambino che guarda spavaldo l’orizzonte mi è tornata alla mente quando,
pensando agli ossiuri, spiegavo a mio figlio che doveva lavarsi le mani
benissimo e cercare di non mettersele in bocca.
Quel
bambino può considerarsi molto fortunato. E non perché non rischia di prendersi
gli ossiuri che proliferano nei climi temperati e non in Africa. Ma perché è
sopravvissuto alla nascita ed è sopravvissuta al parto anche la sua mamma. Quel
bambino aveva una probabilità di morire venendo al mondo 17 volte maggiore
rispetto a mio figlio.
Tuttavia,
per lui, la strada è ancora in salita, in una zona del mondo in cui un bambino
su otto muore prima dei cinque anni.
Potrebbe
essere punto da una zanzara e ammalarsi di malaria, potrebbe prendere la
polmonite che è la prima causa di mortalità infantile in quei luoghi, o una
semplice diarrea che lì può rivelarsi fatale, o il morbillo di cui da noi,
grazie al vaccino, non si parla più. Quel bambino poi potrebbe essere sotto
nutrito, malnutrito oppure potrebbe essere morsicato da uno scorpione, da un
serpente. O avere una febbre che non passa, per colpa di una zecca.
L’infanzia
di quel bambino è un percorso a ostacoli e in salita.
L’infanzia
dei nostri figli è uno scivolo.
I
bambini hanno gli stessi diritti, dovunque essi siano nati. Lo dice anche la
Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo. Hanno diritto a una speciale
protezione e «devono
poter crescere e svilupparsi in modo sano».
Peccato che non succeda.
Forse dovremmo ricordarcene quando
abbiamo paura degli ossiuri.
Elasti per AMREF Italia
lunedì 20 maggio 2013
Voi non sarete soli
Il 24 aprile Fiorella Mannoia, testimonial della campagna Stand Up for African Mothers, era nel Benin, dove è stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine del Consiglio Mondiale del Panafricanismo (CO.MO.PA) per aver contribuito a far conoscere la figura di Thomas
Sankara nel nostro paese e per la vicinanza al popolo e alle donne
Africane. Ecco un estratto del discorso da lei tenuto in quella occasione.
Sono sempre stata attratta dal Sud, a cominciare da quello del mio paese, ho sempre constatato che il Sud del mondo divide lo stesso triste destino, compreso quello Italiano o come l'America Latina: sempre depredato, derubato, saccheggiato e abbandonato a se stesso. L'Africa però apre un capitolo a parte su questa triste storia dell'umanità, una storia che si cerca in tutti i modi di occultare, di far dimenticare che è la storia dell'Olocausto che ha subito, di cui nessuno parla più, (se mai ne hanno parlato), ed è molto toccante fare questo discorso qui a pochi metri da quella "Porta del non ritorno" in questo paese crocevia di dolore e spiritualità, ma 45 milioni di deportati pesano sulla coscienza dell'Occidente intero e penso che l'Africa meriti anche lei un "Giorno Della Memoria" in cui il mondo intero ricordi e le chieda scusa per tutto questo.
L'Occidente sta attraversando uno dei suoi periodi più bui. Se il comunismo è fallito, anche il capitalismo è fallito, il sistema sta implodendo, stiamo attraversando una grande crisi economica, ma non solo, anche una crisi etica, morale, culturale, e penso sia ora che si cominci a pensare a ridisegnare questo pianeta e a metterci in testa che non è possibile continuare ad accettare che il 20 per cento dell'umanità decida sulla vita e sulla morte del restante 80 per cento di esseri umani, cominciando a redistribuire le risorse smettendo di prendere senza lasciare niente in cambio, lo dovrà fare perchè arriverà il giorno, sempre per ricordare le parole di Thomas Sankara per cui "i poveri e gli esclusi impediranno ai ricchi di mangiare tranquillamente". Io penso che in questa crisi globale, se ci sará qualcosa di nuovo all'orizzonte, non so come, non so quando, ma sono certa verrà da Sud.
Sarà una battaglia dura ma che si combatterà, io penso, con l'unica arma che fa davvero paura, la piú micidiale, la piú temuta, la più osteggiata, la piú ostacolata nella storia dell'umanità, che è l'arma della conoscenza, della cultura, della scuola, è questa la grande sfida che l'Africa e non solo l'Africa, si appresta a fare, perché solo ritrovando l'oroglio di noi stessi,
delle nostre radici, delle nostre tradizioni e soprattutto la veritá della nostra storia, potremmo davvero come diceva Sankara "vivere liberi e vivere degni". E noi - e parlo al plurale perché, nonostante ci sia nel mio paese qualche rigurgito odioso di intolleranza, siamo in tanti ad amare la giustizia, i diritti dell'uomo e questa Terra, che è madre di tutta l'umanità - noi saremo con voi, non sarete soli.
Fiorella Mannoia per AMREF Italia
Sono sempre stata attratta dal Sud, a cominciare da quello del mio paese, ho sempre constatato che il Sud del mondo divide lo stesso triste destino, compreso quello Italiano o come l'America Latina: sempre depredato, derubato, saccheggiato e abbandonato a se stesso. L'Africa però apre un capitolo a parte su questa triste storia dell'umanità, una storia che si cerca in tutti i modi di occultare, di far dimenticare che è la storia dell'Olocausto che ha subito, di cui nessuno parla più, (se mai ne hanno parlato), ed è molto toccante fare questo discorso qui a pochi metri da quella "Porta del non ritorno" in questo paese crocevia di dolore e spiritualità, ma 45 milioni di deportati pesano sulla coscienza dell'Occidente intero e penso che l'Africa meriti anche lei un "Giorno Della Memoria" in cui il mondo intero ricordi e le chieda scusa per tutto questo.
L'Occidente sta attraversando uno dei suoi periodi più bui. Se il comunismo è fallito, anche il capitalismo è fallito, il sistema sta implodendo, stiamo attraversando una grande crisi economica, ma non solo, anche una crisi etica, morale, culturale, e penso sia ora che si cominci a pensare a ridisegnare questo pianeta e a metterci in testa che non è possibile continuare ad accettare che il 20 per cento dell'umanità decida sulla vita e sulla morte del restante 80 per cento di esseri umani, cominciando a redistribuire le risorse smettendo di prendere senza lasciare niente in cambio, lo dovrà fare perchè arriverà il giorno, sempre per ricordare le parole di Thomas Sankara per cui "i poveri e gli esclusi impediranno ai ricchi di mangiare tranquillamente". Io penso che in questa crisi globale, se ci sará qualcosa di nuovo all'orizzonte, non so come, non so quando, ma sono certa verrà da Sud.
Sarà una battaglia dura ma che si combatterà, io penso, con l'unica arma che fa davvero paura, la piú micidiale, la piú temuta, la più osteggiata, la piú ostacolata nella storia dell'umanità, che è l'arma della conoscenza, della cultura, della scuola, è questa la grande sfida che l'Africa e non solo l'Africa, si appresta a fare, perché solo ritrovando l'oroglio di noi stessi,
delle nostre radici, delle nostre tradizioni e soprattutto la veritá della nostra storia, potremmo davvero come diceva Sankara "vivere liberi e vivere degni". E noi - e parlo al plurale perché, nonostante ci sia nel mio paese qualche rigurgito odioso di intolleranza, siamo in tanti ad amare la giustizia, i diritti dell'uomo e questa Terra, che è madre di tutta l'umanità - noi saremo con voi, non sarete soli.
Fiorella Mannoia per AMREF Italia
giovedì 9 maggio 2013
Bodil, Fabiana, Esther e le altre
Quando aspettavo il mio primo figlio, come usa tra primipare, ho fatto un corso preparto. Era tenuto da Bodil, un’osterica svedese che ci mostrava surreali filmati anni ’70 sul travaglio di giunoniche e stoiche gestanti scandinave, ci insegnava a parlare con il nostro pavimento pelvico e ci intimava, rassicurante e spiccia, di rilassarci e stare serene ché tanto il parto è un fatto normale, fisiologico e, soprattutto, con le enormi pance che ci ritrovavamo, ineluttabile.
Dopo
Bodil conobbi Fabiana che mi sgridò perché non mi dilatavo («Ho capito, io: tu questo bambino
non vuoi fare uscire!») e
poi mi accarezzò la testa, come una mamma. Incontrai Letizia che mi insegnò ad
allattare, Giovanna che sconfisse le mie ragadi, Simona che mi mostrò come
massaggiare mio figlio neonato, poi Barbara, Claudia e Monica e altre ancora.
Tre gravidanze, tre parti, tre allattamenti. Di ostetriche ne ho conosciute e
frequentate parecchie.
Ho
imparato, osservandole e ascoltandole, che fanno un mestiere fondamentale e
difficilissimo, fatto di adrenalina e tenerezza, di sapere scientifico e
pratico, di empatia e severità, di improvvisazione e sangue freddo, di pazienza
e decisionismo. Ho scorto un filo rosso, che le accomuna tutte o quasi, perché
il contatto quotidiano con la magia della nascita, e con i buchi neri e le
meraviglie che la circondano, insegna a contenere, ad accogliere, a rassicurare
e a farsi madri, ogni volta che nasce un bambino e che nasce una mamma.
Per
essere ostetrica bisogna essere fatta di una pasta speciale, dono di poche.
«Piacere, sono Esther Madudu, la
famosa ostetrica ugandese»,
mi ha detto, inghiottendomi in un abbraccio morbido, dentro cui avrei voluto
abitare. Esther è un simbolo, candidata da AMREF al Nobel per la Pace del 2015,
in rappresentanza di tutte le ostetriche dell’Africa Subsahariana, costrette a
lavorare in condizioni difficilissime, spesso senza elettricità, sole e con turni
massacranti.
L’ho
incontrata a Kampala, la capitale dell’Uganda, durante una cena formale e
intimidente. Energica, forte, sorridente. Una di quelle donne al cui fianco non
hai più paura di niente. Una di quelle donne che ti incantano, nella loro
maestosa semplicità.
In
Uganda, di Esther, ne ho vista più d’una. Ne ho incontrate mentre facevano
prelievi per il test dell’HIV sulle gestanti, mentre insegnavano la prevenzione
e contraccezione, mentre accudivano puerpere bambine, lasciate sole con i loro
neonati. Candide, preparate, dedite, consapevoli, leggere e coraggiose. Come
Bodil, Fabiana, Giovanna, Simona e le altre, incrociate quassù.
Come loro empatiche, come loro magnetiche, come
loro materne. Solo più consapevoli del loro ruolo da giganti, solo costrette a
lottare quotidianamente contro difficoltà che nessuna donna e nessuna ostetrica
dovrebbe affrontare, solo, più di Bodil e Fabiana, obbligate a tirare fuori un
eroismo che a nessuno dovrebbe essere chiesto.Elasti per AMREF Italia
martedì 23 aprile 2013
Questa è la mia storia. O la nostra?
Profili di uomini e donne di colori e tratti diversi si
alternano sullo schermo; i loro capelli si dissolvono in un disegno che evoca
luoghi, volti, storie. Sembrano pensieri, o ricordi, forse sono nostri e non
della persona ritratta.
Vengono, dice un sottopancia, da Marocco, Nigeria, Ucraina e
vanno in Italia, Spagna, Francia. E
dicono: “sono qui nel tuo paese che è
anche il mio. Questa storia non è più
solo la mia, è la nostra”.
Al
seminario, nella Cineteca di Bologna, del Festival HumanRightsNights, diverse
esperienze di comunicazione sociale sono state messe a confronto.
Si è
parlato di migrazioni, di integrazione, di diritti. E non c’era differenza tra
la mia storia di donna - lavoro, famiglia, impegno sociale – e quella di Gloria
che lotta per le stesse cose ma mostrando un colore diverso della pelle, un
accento che tradisce una provenienza africana. E così ho pensato che è proprio
vero che le parole sono in bianco e nero, non solo su questo blog. Perché la
storia di Gloria - dell’Association entre mulheres mundo – è come la mia ma non
tanto. Perché lei racconta che ha dovuto lasciare il suo paese, la Nigeria, per
sfuggire ad un destino di povertà. Che all’aeroporto, in arrivo dalla Spagna,
dove vive da 15 anni, era insieme ad altre persone ma solo lei è stata fermata
e solo a lei è stato chiesto il motivo del suo viaggio. Capita, certo. Ma a
qualcuno capita di più. E’ contro questa percentuale che stiamo lottando, con
le nostre campagne in Africa (per la salute e l’istruzione) e in Italia.
Paola Ferrara, Direttore della Comunicazione, AMREF Italia
giovedì 18 aprile 2013
Lungo le strade, in Etiopia...
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Lungo
le strade, in Etiopia, le strade asfaltate o quelle sterrate, ovunque donne e
bambini, pochi uomini, molti animali, camminano. Camminano in mezzo alla
savana, a chilometri da un centro abitato visibile, e tu li guardi e ti vien
proprio da chiederti: ma dove vanno? Vanno, il più delle volte, a prendere
l’acqua, portano a bere le capre le vacche i cammelli. Visitiamo una cisterna
fra le acacie e la sabbia: rubinetti di acqua pulita in un punto vicino a più
villaggi, il sole è alto e il caldo fortissimo. Arrivano le donne e i bambini
con dei bidoni gialli, li riempiono, li caricano sulle spalle reggendoli su dei
lunghi bastoni. Hanno tuniche colorate e piedi nudi, collane colorate e
bellissime. Una di loro ci racconta che la cisterna è gestita dalla comunità,
che è una cosa che ha cambiato le loro vite, che qualche anno fa i chilometri
da fare per raggiungere l’acqua erano più di 20, che lei ha perso il bambino
che aspettava, una volta, in una di queste camminate. Il nostro arrivo è un
evento, come una festa, dopo poche decine di minuti lo spazio si riempie di
persone, bambini curiosi e diffidenti, l’aria si gonfia delle storie che tutti
vogliono raccontare. Con la terra dentro il naso e in mezzo ai denti, li guardo
uno per uno, provo a immaginare le esistenze oltre gli aneddoti, i sogni negli
occhi scuri dei ragazzi. Risaliamo sulla jeep, i finestrini chiusi, l’aria
condizionata, bottigliette di acqua minerale, entriamo in un villaggio, dentro
agli zaini gli appunti presi, le foto scattate, piccoli pezzi di vite.
Paola Soriga per AMREF Italia
mercoledì 10 aprile 2013
L'Uganda, Esther e il bisogno di ostetriche dell'Africa
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Essere madre qui non
è una scelta, quasi mai. I figli arrivano quando devono arrivare, come gli
acquazzoni di fine pomeriggio e, come gli acquazzoni, vengono accolti con la
stessa pazienza di chi sa che la natura e gli eventi si possono solo
assecondare.
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A vederla oggi, l'Uganda non sembra la
stessa terra uscita, solo sette anni fa, da una delle più dolorose guerre civili della storia africana: una
guerra durata vent’anni, che ha causato
l’uccisione di oltre
100mila persone, provocando più di 1 milione e mezzo di sfollati
interni e il
rapimento di 40mila bambini.
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A vederla oggi, l’Uganda
ha ricucito tante ferite: frotte di ragazzini, uomini in bici e donne a piedi
sono tornati a popolare le strade che un tempo erano presidiate dai ribelli;
ovunque, anche nel bel mezzo di un niente apparente, una donna, con un bambino adagiato
sulla schiena e qualche altro che le trotterella dietro, cammina con una tanica
d’acqua o un cesto sulla testa, per colmare il bisogno di sopravvivenza
quotidiana di una famiglia, una comunità, un villaggio.
In Africa, più che altrove, la differenza tra la
vita e la morte di una madre passa per un’ostetrica. Si può mettere al mondo
una creatura senza un’ospedale, anche senza un medico. Ma senza un’ostetrica,
ogni inciampo può finire in un baratro. Esther Madudu, 32 anni, è un'ostetrica formata da
AMREF e impiegata dal governo ugandese presso l'Atiriri Health Centre IV, nel
distretto di Katine. Il lavoro di Esther non si limita a far nascere i bambini,
lei garantisce alle sue Mamas tutti i
servizi prenatali: visite, consulenza alle donne sieropositive, educazione
alimentare, assistenza e cure neonatali. “Facciamo
nascere almeno 50 bambini al mese e visitiamo tra le 35 e le 40 donne al giorno”
racconta Esther, che AMREF ha candidato al Nobel per la Pace 2015, in quanto
simbolo del lavoro quotidiano delle ostetriche in Africa. “Qui al Centro siamo in due e lavoriamo per dieci. Ce n’è bisogno, non
possiamo tirarci indietro. Ma se ci fossero più ostetriche, molte più madri in
Africa potrebbero essere salvate”.
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Perché il problema è
proprio questo: in Africa ci sono tante Esther che lavorano, ma non sono
abbastanza.
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E’ qui
che organizzazioni come AMREF formano il personale sanitario locale: ostetriche
di comunità e Community Health Workers
che, sulla base di un calendario ben programmato, raggiungono i villaggi più
remoti, erogando servizi essenziali come le vaccinazioni, le visite prenatali,
i corsi di educazione sessuale e riproduttiva, la formazione igienico-sanitaria
domestica. Se è vero che il futuro dell’Africa è in Africa, probabilmente è da
qui che può iniziare.
Valeria Sabato, Ufficio stampa, AMREF Italia
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